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Le difficoltà dell’indotto auto sono rimaste nell’ombra

dalla Newsletter n. 50 del 20/07/2010

1. Un dibattito incompleto: poca attenzione alla catena di fornitura

Nel dibattito sulla vertenza FIAT di Pomigliano d’Arco gli effetti dell’investimento per la realizzazione del nuovo modello Panda sull’indotto locale e sullo sviluppo territoriale sono stati spesso trattati con una certa superficialità.
Eppure è noto che nell’attuale organizzazione della catena del valore del settore automobilistico, l’assemblaggio finale produce non più del 20% del valore del prodotto[1] e anche dal punto di vista occupazionale, il rapporto tra gli addetti all’assemblaggio finale e quelli che si collocano nella catena di fornitura è in media di uno a quattro.

 

Nel caso di Pomigliano si è parlato dell’indotto solo in termini strumentali. Il riferimento alla fornitura locale è stato perlopiù funzionale ad accrescere la posta in gioco della vertenza sindacale, enfatizzando le ricadute economiche e occupazionali sul territorio indotte dall’investimento/disinvestimento FIAT.
Il dibattito su Pomigliano, pertanto, sconta un deficit di analisi sia delle caratteristiche dell’indotto locale, sia degli effetti che il piano industriale e il progetto di ristrutturazione dello stabilimento “Gianbattista Vico” potrebbero avere per la riconfigurazione della catena di fornitura su scala locale e globale. In molti casi si è partiti dall’assunto semplicistico di un rapporto meccanico di trasmissione tra lo stabilimento di assemblaggio FIAT e le imprese locali della fornitura, sottovalutando le discrasie che nel frattempo sono emerse nell’indotto locale, all’interno di dinamiche di cambiamento più generali intervenute nel riassetto del sistema di fornitura FIAT-Chrysler e quelle che si renderanno necessarie per adeguare i prodotti e i processi produttivi alle specifiche della “Nuova Pomigliano”.

Gli effetti indotti per l’economia locale dall’investimento della FIAT a Pomigliano, in termini economici e occupazionali, non sono affatto così scontati come spesso vengono presentati. La situazione da qui a due anni – quando dovrebbe partire la produzione della nuova Panda – si presenterà profondamente mutata rispetto all’assetto che attualmente l’indotto ha assunto in relazione alla precedente missione produttiva dello stabilimento napoletano.

2. Le caratteristiche dell’attuale indotto regionale della FIAT di Pomigliano

Secondo gli ultimi dati disponibili sul settore automotive in Campania[2] relativi a marzo 2008, operano su scala regionale 105 unità locali d’impresa (comprese quelle FIAT), per un totale di 18.347 addetti; di queste imprese 34 sono fornitori diretti dello stabilimento di Pomigliano (First Tier Supplier), per un totale di 6.106 addetti. In termini numerici i fornitori campani coprono solo l’11% del totale dei fornitori di primo livello di Pomigliano, mentre la maggior parte delle forniture provengono da stabilimenti localizzati nelle aree più industrializzate del Centro-Nord (in particolare Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna); dal punto di vista qualitativo, inoltre, in Campania si rilevano in maggioranza stabilimenti decentrati di imprese extralocali che hanno un carattere quasi esclusivamente manifatturiero e subalterno alle sedi centrali dove sono localizzate le funzioni aziendali “intelligenti” (direzione, R&S, marketing, etc.).

Nonostante tali limiti, l’industria automotive rappresenta un settore cruciale per l’occupazione e la produzione di ricchezza in Campania: se si considerano i dati relativi al 2006 – anno di massima espansione del settore automotive regionale – si registra un valore di produzione pari a 6,5 miliardi di euro, per un valore aggiunto di 1,3 miliardi di euro; un livello di esportazione di autoveicoli del valore pari al 22,4% del totale dell’export campano, per un’incidenza del 7,1% sulle esportazioni italiane di autoveicoli; infine gli addetti del settore rappresentano il 6% dell’occupazione industriale regionale[3].

3. La crisi attuale dell’indotto regionale

Lo stabilimento di Pomigliano si è trovato in una condizione di sottoutilizzazione dalla seconda metà del 2007, per ragioni di mercato ma soprattutto per le scelte aziendali di allocazione dei modelli tra gli stabilimenti. L’Azienda, infatti, ha lasciato all’impianto napoletano l’assemblaggio dei modelli Alfa 147 e GT (segmento C), due prodotti alla fine del ciclo di vita, e quello Alfa 159 (segmento D) i cui volumi di vendita, anche se fossero stati in linea con le previsioni, sarebbero stati comunque insufficienti per raggiungere l’obiettivo del pieno utilizzo dello stabilimento. Inoltre il passaggio strategico dalla specializzazione degli stabilimenti dai brand alle piattaforme tecnologiche, ha lasciato Pomigliano senza una missione produttiva. Tale situazione, in ogni caso, si protrarrà fino al 2012 quando si dovrebbe chiudere un quinquennio in cui lo stabilimento di fatto è stato messo in “stand-by”.

L’inerzia nel rinnovare la missione produttiva di Pomigliano ha indotto una crisi delle imprese della fornitura, con un effetto negativo su scala regionale rilevante: escludendo il gruppo FIAT, nel corso del 2008 ad esempio le imprese operanti nella fornitura automobilistica che hanno dichiarato lo stato di crisi sono state 19, per un totale di circa 2,8mila addetti[4]. Si tratta soprattutto delle imprese con un elevato grado di dipendenza dalle fornitura allo stabilimento di Pomigliano.

Al contrario le imprese che meglio hanno affrontato la crisi sono quelle con un più elevato livello di diversificazione di prodotto e di cliente, cioè quelle che hanno già sviluppo rapporti di fornitura con altri stabilimenti, sempre del gruppo FIAT visto che la situazione di monopsonio voluta dalla stessa FIAT non ha permesso di allentare la condizione di dipendenza.

4. Le prospettive di ristrutturazione della catena di fornitura

L’investimento della FIAT a Pomigliano non risolleverà immediatamente le sorti dell’indotto locale. Nei prossimi due anni, infatti, i fornitori regionali si troveranno di fronte ad una doppia sfida: la necessità di sviluppare il proprio business nella direzione della diversificazione dei prodotti e degli stabilimenti forniti, e contestualmente avviare gli investimenti di ristrutturazione necessari per rispondere alle esigenze di fornitura anche per la piattaforma tecnologica del segmento A (su cui si produce la Panda), secondo un’organizzazione produttiva coerente con il modello in progetto per lo stabilimento di Pomigliano.

Di fronte a tale sfida è probabile che emergeranno nuove crisi delle unità produttive più deboli caratterizzate cioè da monocommittenza, con una struttura finanziaria più debole e con un ridotto accesso al credito, con una minore possibilità di utilizzo degli ammortizzatori sociali e delle misure a garanzia del reddito degli addetti (condizioni alle quali invece la FIAT e le grandi imprese della componentistica accedono più agevolmente). D’altra parte le imprese che potranno seguire la sfida di Pomigliano, saranno quelle che nel frattempo avranno già vinto la sfida della diversificazione e avranno raggiunto le condizioni produttive e finanziare per poter affrontare i necessari investimenti e le opportune riorganizzazioni.

È necessario sottolineare che il downgrading dello stabilimento di Pomigliano dalla piattaforma C/D per la produzione delle auto medio-grandi[5] a quella A per la produzione dei modelli small, significa lo scivolamento verso produzioni a minor valore aggiunto per l’intera catena di fornitura. I ricavi per unità di prodotto saranno ridottissimi e solo il raggiungimento dell’obiettivo dei volumi produttivi previsti, potrebbe garantire le economie di scala e i vantaggi competitivi di costo necessari a rendere profittevoli gli investimenti. Ciò comporterà una pressione per la riduzione dei prezzi sui componentisti e a cascata sui subfornitori che si collocano nei livelli più bassi della catena di fornitura, con ricadute prima di tutto sulle condizioni di lavoro probabilmente più intense di quelle chieste dalla FIAT per Pomigliano.

Nella logica delle economie di scala non può essere trascurata, inoltre, l’ipotesi che l’attuale catena di fornitura della componentistica diretta allo stabilimento di Tichy in Polonia – dove rimane allocata la piattaforma A su cui si assemblano i modelli FIAT 500, l’attuale Panda, e la Ford Ka – fornirà poi anche una parte consistente della componentistica allo stabilimento di Pomigliano, estromettendo una quota, più o meno ampia, di fornitori locali.

5. La politica industriale (che manca)

Per l’indotto locale, quindi, l’investimento FIAT a Pomigliano apre uno scenario di ristrutturazione in cui emergono principalmente due rischi: (1) il ridimensionamento complessivo della fornitura locale, con possibili riduzioni del valore prodotto e dell’occupazione; (2) il downgrading della componente locale della filiera di fornitura, per il passaggio a produzioni a più ridotto valore aggiunto, dove la competizione è basata sulle economie di scala e i vantaggi competitivi di costo.

Tali rischi appaiono più preoccupanti in assenza di un’adeguata politica industriale, su scala nazionale ma soprattutto regionale, di contrasto al ridimensionamento e alla dequalificazione del settore automotive.
A differenza di altre regioni in cui è presente la FIAT[6], in Campania si sconta un ritardo nelle politiche di sostengo allo sviluppo, alla qualificazione e al radicamento territoriale delle imprese della componentistica e della subfornitura automobilistica. La stessa imprenditoria locale, afflitta da tradizionali limiti strutturali, è stata poco supportata anche quando ha avviato progetti di rafforzamento, presentando progetti per attivare contratti di programma regionali (il Consorzio Irpinia Automotive nella provincia di Avellino e il Consorzio COSVIN nella provincia di Napoli a valere su art. 2 L.R. 12/07) che tuttora sono in fase di valutazione, a fronte di uno scenario economico e di settore completamente mutato.

Eppure in Campania, nonostante le strutturali diseconomie ambientali, esistono le condizioni per disegnare politiche per lo sviluppo del settore automotive non semplicemente basate sui vantaggi competitivi di costo. I livelli d’industrializzazione della Campania rimangono i più alti del Mezzogiorno, esiste un’industria manifatturiera articolata con possibilità d’intersezioni intersettoriali (tra aeronautico, ferroviario, navale, oltre che automotive), è inoltre presente una significativa rete di strutture di ricerca (di base e applicata; pubbliche e private) sulla base della quale sarebbe auspicabile pensare a politiche di medio termine di estensione, qualificazione e anche di riconversione della produzione automobilistica, per provare magari a pensare Pomigliano anche oltre l’attuale produzione dell’auto.

Si tratta, però, di un patrimonio produttivo in via di progressiva degradazione e con esso le possibilità di pensare realisticamente ad un percorso di crescita economica, socialmente sostenibile, che non ripresenti più come uniche scelte alternative la disoccupazione e il peggioramento delle

condizioni di lavoro, come si è visto nella vertenza di Pomigliano.

[1] Cfr. Jürgens U., “Ristrutturare l’industria automobilistica e la sua forza lavoro: una prospettiva a livello mondiale”, in Bardi A., Garibaldo F. e Telljohann V. (a cura di), A passo d’auto. Impresa e lavoro nel settore automobilistico, Maggioli, Ravenna, 2006.
[2] Cfr. Pirone F., “I limiti e le potenzialità di crescita e qualificazione dell’industria dell’auto in Campania”, relazione al Convegno ISIAM Innovazione e Sviluppo dell’ Industria dell’Auto nel Mezzogiorno, Università di Salerno, Fisciano, 3 marzo 2008.

[3] Cfr. Pirone F, “Grande impresa e sviluppo territoriale. Uno studio di caso: la FIAT e le imprese fornitrici in Campania”, relazione al Convegno AIS-ELO Sviluppo, istituzioni e qualità sociale, Università di Cagliari, Cagliari, 17-18 settembre 2009.
[4] Cfr. FIM-FIOM-UIL Campania, Note sulla crisi industriale nel settore metalmeccanico in Campania, Napoli, 14 novembre, 2008.
[5] La piattaforma C è stata allocata a Cassino, mentre i nuovi modelli Alfa Romeo del segmento D – quelli a maggior valore aggiunto – verranno prodotti su piattaforme Chrysler e probabilmente allocati negli stabilimenti americani.

[6] Cfr. ISIAM, Iniziative locali per il sostegno e lo sviluppo dell’industria della componentistica auto, Università di Salerno, Fisciano, 13 maggio e 10 giugno, 2009.

(*) Francesco Pirone
Research Fellow
Department of Sociology and Political Science University of Salerno

 

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