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La paradossale vicenda della ” Buona Scuola”

Un bilancio critico delle politiche scolastiche della legislatura che si sta chiudendo deve per forza concentrarsi prevalentemente sulla Buona Scuola del governo Renzi. Il breve tempo del governo Letta ha, infatti, lasciato, pochissime tracce nel mondo dell’istruzione; mentre ciò che hanno fatto per la scuola il governo Gentiloni e in particolare la ministra Valeria Fedeli, dopo la caduta di Renzi, va in larga misura letto come un tentativo di riparare all’eredità, carica di problemi e tensioni, della stessa Buona Scuola.

 

Il fallimento della Buona Scuola. Da un punto di vista politico, la riforma della Buona Scuola ha avuto esiti, a dir poco, paradossali. Annunciata nell’autunno 2014, fortissimamente voluta dallo stesso presidente del Consiglio, presentata come il “fiore all’occhiello” di un governo che, dopo i grandi tagli del centro-destra con Gelmini e Tremonti, ritornava a investire importanti risorse pubbliche (3 miliardi all’anno) sull’istruzione, fondata sul duplice ambiziosissimo obiettivo di migliorare la qualità degli apprendimenti e insieme risolvere storici problemi relativi al corpo insegnante, diventata legge (107/2015) nell’estate 2015, la Buona Scuola ha fallito su quasi ogni fronte, scontentando tutti:  le famiglie e gli studenti, prima di tutto, che, invece di una didattica rinnovata e di una maggiore continuità nella docenza, hanno visto con sgomento trascorrere i due anni scolastici successivi all’approvazione della legge in un caos organizzativo che ha pochi eguali nella storia italiana recente; gli insegnanti, che pure dovevano esserne i primi beneficiari e che invece ben presto, con proteste e scioperi, le si sono rivoltati contro, timorosi delle varie novità, a partire dai trasferimenti dal sud al nord, e preoccupati dei maggiori poteri assegnati, almeno sulla carta, ai presidi; i dirigenti scolastici, che si aspettavano acquisire con la legge maggiori responsabilità, specie nella scelta dei docenti, ma si sono invece trovati con più oneri organizzativi e burocratici di prima.

 

Attraverso un breve sunto dei temi su cui la legge 107 è risultata inadeguata rispetto ai bisogni della scuola, cerchiamo di capire perché si può definire un’occasione perduta, purtroppo l’ennesima.

 

In primo luogo, la Buona Scuola sarà ricordata soprattutto per la decisione di assumere in blocco decine di migliaia di insegnanti precari (nelle intenzioni circa 120mila, nei fatti circa 90mila), con l’argomento che così il cronico fenomeno del precariato sarebbe stato risolto con un taglio netto, rispondendo anche agli obblighi di una sentenza europea. Ora, ci si può legittimamente chiedere – alla luce del confronto con altri sistemi e della tendenza alla diminuzione della popolazione scolastica nel nostro Paese – se la scuola italiana avesse davvero bisogno di tanti nuovi docenti. Ma se anche così fosse, certo costoro avrebbero dovuto avere un profilo professionale in grado di rispondere per il futuro prossimo alla domanda di un insegnamento di migliore qualità. 

Invece, le assunzioni sono state decise in modo scriteriato e senza una reale possibilità di conseguire un miglioramento. Invece di ragionare su quali insegnanti servivano per rinnovare una didattica che in Italia è arretrata – come risulta dalle rilevazioni internazionali e dalla stessa percezione dei nostri insegnati – si è partiti dalla presunta necessità di assumere, subito e tutta insieme, una specifica categoria di insegnanti precari, quelli delle Graduatorie ad esaurimento, ai quali una improvvida normativa di molti anni prima aveva promesso l’assunzione al di fuori del normale canale concorsuale. 

Ma spesso i docenti delle GAE non possedevano la formazione e i profili professionali richiesti dalle scuole; inoltre, molti di loro negli anni precedenti all’assunzione avevano insegnato poco o nulla, risalendo la loro iscrizione alle liste a decenni prima. Va poi detto che, concentrandosi sulle GAE, si è creata un’ingiustizia rispetto alle centinaia di migliaia di docenti precari con caratteristiche simili, come quelli di istituto di seconda fascia, ma esclusi dalla sanatoria. Non si può naturalmente generalizzare, però il dubbio che questi nuovi insegnanti – messi in ruolo tutti insieme e senza alcuna verifica – non fossero per nulla adeguati al ruolo richiesto è stato forte sin dall’inizio. 

Inoltre, si è purtroppo avverato quello che la Fondazione Agnelli aveva segnalato, – con dati e analisi – all’inizio del 2015, sei mesi prima dell’approvazione della legge, come il rischio del mismatch territoriale. In due parole, si può riassumere così: le cattedre da coprire sono al nord, dove ancora per qualche anno la popolazione studentesca sarà in leggera crescita o almeno stabile, mentre i docenti in attesa di un posto sono prevalentemente al sud, dove studenti e classi diminuiscono di anno in anno. Più in dettaglio, data la composizione delle GAE, non era difficile prevedere che, nonostante la più massiccia immissione in ruolo degli ultimi 30-40 anni, non sarebbe stato possibile assegnare migliaia di cattedre nelle regioni del nord e in alcune materie: su tutte, ma non solo, matematica e scienze alle medie. Problema aggravato dalla manifesta indisponibilità di molti neoassunti di trasferirsi nelle regioni e nelle scuole dove servivano. O, qualora il trasferimento fosse formalmente stato accettato, dalla ricerca di ogni possibile mezzo per ritornare al più presto a casa. Fenomeno non nuovo, ma riesploso con la vibrante polemica sulle “deportazioni” nell’estate-autunno 2016.

In conclusione, molti precari assunti con la 107 non sono per profilo professionale e per residenza geografica in grado di soddisfare i bisogni reali delle scuole. Bisogni che, come in passato, in questi due anni e mezzo dall’approvazione della legge sono stati ancora appagati dai supplenti, che si voleva invece ridurre al minimo. Non a caso il precariato nella scuola non è affatto rientrato entro limiti fisiologici né le GAE sono scomparse. Alle scuole continuano a servire – anche dopo l’ultimo concorso nel 2016 – 80.000 supplenti annuali, con buona pace della continuità didattica. 

 

In secondo luogo, sono risultate inadeguate le scelte di rafforzamento e di integrazione dei curricoli proposte dalla Buona Scuola. Non è possibile qui entrare nel merito di ciascuno, ma in generale gli interventi sono sembrati motivati non tanto da una visione lungimirante di quali debbano essere le conoscenze e le competenze indispensabili agli studenti italiani per i prossimi decenni, ma più strumentalmente dall’urgenza di trovare una cattedra a quei precari che hanno la sventura di appartenere alle classi di concorso più affollate. Che nelle nostre scuole si debba insegnare più arte, più musica e più educazione alla legalità è probabilmente giusto, ma ci si doveva arrivare per scelta culturale e pedagogica, non perché c’erano troppi docenti di musica e di diritto da assumere. Nuovamente, si è cercato di fare passare come miglioramento della qualità dell’istruzione in Italia quello che, in realtà, era un problema – serio e urgente, ma sostanzialmente diverso – di mercato del lavoro degli insegnanti.

 

In terzo luogo, non si è capito perché la legge abbia rinunciato a “premiare il merito” dei docenti attraverso la costruzione di un articolato percorso di carriera e di crescita retributiva. Questa ambizione è stata anzi la prima a venire meno. Il governo all’inizio si era proposto di “scambiare” le assunzioni con l’abolizione degli scatti di anzianità, da sempre unico criterio di carriera e retribuzione per il docente italiano. Ma il proposito è stato ben presto dimenticato e ciò che di “merito” è rimasto nella legge è poca roba e mal congegnato: un bonus una tantum (i famosi 200 milioni), di difficile realizzazione. Anche se non abbiamo ancora un’analisi di come è stata assegnata la prima tornata dei bonus, sappiamo dalla sperimentazione VSQ, voluta dallo stesso MIUR con il ministro Gelmini e condotta in 77 scuole medie, a cui era stata concessa ampia libertà nei criteri con cui distribuire il premio, che quasi la metà degli istituti ha preferito suddividerlo “a pioggia” fra tutto il personale, inclusi i docenti delle primarie e gli ATA. Il rapporto di monitoraggio della sperimentazione, realizzato dalla Fondazione Agnelli, ci dice che molte istituzioni scolastiche continuano a rifiutare la logica premiale del singolo docente. 

 

Analogo discorso può essere fatto per i dirigenti scolastici. La Buona Scuola voleva fare un primo timido passo per dare loro la possibilità di scegliersi almeno in parte il personale docente. Si badi, non era un potere di assunzione, come in altri paesi, ma la più limitata facoltà di individuare fra i docenti già assunti quelli che per profilo professionale potevano risultare più adatti a perseguire gli obiettivi di miglioramento del proprio istituto. Ma, anche in questo caso, un’ondata di proteste ha portato il Governo a mettere così tanti vincoli alla cosiddetta “chiamata diretta” da cancellare quasi del tutto il carattere innovativo della norma.

 

Che cosa resta di buono della Buona Scuola? Sicuramente le misure per una strutturata e diffusa alternanza scuola-lavoro. In qualche modo, ci si è ispirati al sistema tedesco, che in questi anni ha contribuito a contenere i rischi della disoccupazione giovanile: più che uno strumento di orientamento, l’idea è che gli studenti abbiano un primo contatto con il mondo al di fuori delle aule scolastiche, apprendendo i tipi di comportamento richiesti dagli ambienti di lavoro. Ma se è ancora troppo presto per dire se l’applicazione in Italia di una seria alternanza scuola-lavoro avrà successo, certo l’applicazione finora è stata a macchia di leopardo, con progetti di grande interesse e altri oggetto di violente controversie. In ogni caso, molto dipende dalle risorse che saranno effettivamente messe in campo, ma anche dalla maturità e dalla capacità culturale del mondo della scuola e delle imprese di dare gambe e continuità alla novità normativa. 

 

Luci e ombre del ministero Fedeli. Diventata ministra con il governo Gentiloni dopo il referendum che fece cadere Renzi, Valeria Fedeli non è stata con le mani in mano. Palesemente, il suo mandato politico aveva due obiettivi: ricucire – dopo gli strappi della legge 107 e le polemiche che ne erano seguite – con il mondo della scuola, in particolare, con i docenti; fare partire dignitosamente il nuovo anno scolastico e così tranquillizzare le famiglie. Il bilancio è, nel complesso, positivo; ma la ministra ha dovuto smontare parti significative della riforma, come la chiamata diretta. Inoltre, è riuscita finalmente a fare partire, sia pure con grande ritardo, il concorso per l’assunzione di nuovi dirigenti scolastici, che il proliferare della piaga delle reggenze (un DS a capo di più istituti, con tutti le problematiche della situazione) rendeva assolutamente necessario.

 

Mentre ci si chiede se, prima delle elezioni, riuscirà anche a chiudere il nuovo contratto, nel frattempo Fedeli ha messo il suo nome alla realizzazione di due novità importanti, già previste dalla Buona Scuola. La prima da valutare positivamente, la seconda meno.

 

Con un decreto dell’aprile 2017, è nato finalmente un sistema integrato dei servizi educativi per i bambini da 0 a 6 anni. Nella nuova logica, nidi e scuole dell’infanzia non sono più solo luoghi di custodia, ma il primo importante passo del cammino educativo di una persona. Il decreto fissa obiettivi ambiziosi – il 33% dei bambini accolti anche nelle regioni del Sud – e alza lo standard della preparazione delle educatrici: certamente richiede risorse notevoli e un miglior coordinamento fra stato e enti locali, ma rappresenta un significativo passo avanti.

 

Il secondo provvedimento è non meno rilevante: si occupa infatti di come formare e reclutare gli insegnanti delle scuole secondarie. L’assenza in Italia di un percorso unico e rigoroso (al posto di quelli – SSIS, corsi-concorsi, TFA e PAS – che si sono sovrapposti negli ultimi decenni, talvolta con esiti poco seri) è un nodo irrisolto, a cui ricondurre in ultima istanza la qualità inadeguata della nostra scuola. Il modello proposto nel decreto non sembra purtroppo in grado di formare insegnanti più preparati e adatti ai bisogni della scuola nei prossimi decenni.

 

Il nuovo percorso delineato dalla Buona Scuola prevede che, dopo la laurea magistrale disciplinare (inclusi pochi crediti di pedagogia e didattica), si venga assunti come insegnante a tempo determinato attraverso un concorso. Dopo l’assunzione il docente dovrà fare un master universitario annuale e due anni di tirocinio; a quel punto verrà – pressoché automaticamente – messo in ruolo.

La proposta ha molti difetti, inclusa la previsione di un percorso troppo lungo (come minimo 8 anni) rispetto ai modelli europei. Ma l’errore più grave consiste nella riproposizione di un antico vizio nazionale: prima la teoria, poi la pratica. Che cosa ci si aspetta oggi da un buon docente? Primo, sapere ciò che insegna e saperlo insegnare, ossia un giusto dosaggio di conoscenze disciplinari e capacità didattiche. Secondo, stare in classe con carattere ed equilibrio, sapendo relazionarsi con gli studenti e anche con i colleghi, perché oggi la scuola ha bisogno di docenti che sappiano fare squadra, non di bravi conferenzieri nel chiuso dell’aula. Infine, capacità di dialogo con le famiglie, per rifondare un’alleanza che si sta sfaldando. La costruzione di queste competenze richiede esperienze pratiche, a contatto diretto con la scuola e con i ragazzi reali. Nel resto d’Europa questo si comincia a farlo già mentre si studia e precede il momento in cui lo Stato assume il docente; nel nuovo sistema, invece, tutta la formazione pratica e il tirocinio avverranno dopo il concorso. In tal modo, la selezione sarà basata sulla conoscenza della teoria e non potrà mai dirci se il candidato, magari ferratissimo nella propria materia, è davvero capace di insegnarla e di stare bene in classe tutte le mattine. E dopo l’assunzione da concorso sarà quasi impossibile impedire il passaggio in ruolo del docente che si riveli inadatto.

 

Conclusione. In queste pagine si è argomentato che la legislatura appena terminata ha avuto la grande opportunità di fare una riforma della scuola che portasse a un significativo miglioramento dei livelli di apprendimento dei nostri studenti, soprattutto a partire dalle medie, ma non l’ha sfruttata, limitandosi a assumere a tempo indeterminato una particolare classe di docenti precari, quelli iscritti alle GAE. L’infelice esito della Buona Scuola non è dovuto, come spesso si sostiene, alla realizzazione sbagliata da parte del Miur di una legge altrimenti ben congegnata, bensì a errori nel disegno originale delle norme, frutto di mancanza di competenze e di una buona dose di approssimazione. I danni prodotti dalla Buona scuola rischiano di essere seri e duraturi: in particolare, vista la veemenza della rivolta dei docenti del 2015, è difficile pensare che i prossimi Governo e Parlamento avranno il coraggio di sfidare ancora il mondo della scuola per riformare sistema scolastico. 

Eppure, la scuola italiana non può fare a meno di profondi cambiamenti, anche al costo dell’impopolarità. Il ritardo sugli apprendimenti che la separa dal resto dei paesi avanzati non accenna a ridursi: anzi, il rischio è che la situazione si incancrenisca, ampliando il gap. Di conseguenza, è auspicabile che la prossima legislatura metta mano ad aspetti cruciali, come la carriera dei docenti, l’allungamento del tempo scuola a partire dalle medie, la revisione dei cicli scolastici, l’aggiornamento dei curriculi alle superiori, una maggior possibilità di selezione degli insegnanti da parte delle singole istituzioni scolastiche. Si tratta evidentemente di nodi complessi da sciogliere, anche alla luce dei trend demografici, che vedranno in futuro una riduzione della popolazione scolastica in tutte le aree del Paese; ma, senza interventi decisi e lungimiranti, i divari territoriali e sociali che attraversano la scuola italiana finirebbero con il condannarla a un inevitabile declino. 

*Presidente Fondazione Agnelli 

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