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Una camomilla non sarà mai un’eccitante

Dunque, il Governo rimette le mani sul contratto a tempo determinato. E anche in modo battagliero. Dice il vice Presidente del Consiglio e Ministro dello Sviluppo economico, del Lavoro e Welfare, Luigi Di Maio: “Ho dichiarato guerra al precariato….Vogliamo che si utilizzi il tempo determinato per brevi periodi e per esigenze aziendali” (intervista ad Avvenire, 28/06/2018).  Il testo approvato dal Consiglio dei Ministri è un decreto dal titolo altisonante, “Decreto Dignità”, che corrisponde alle intenzioni dichiarate dal proponente, ma ciò che conta è il suo contenuto.

Come documenta Cela in questo numero, il decreto affronta molti temi, anche di un certo rilievo: il contenimento del gioco d’azzardo, l’aumento dell’onerosità dell’indennità di licenziamento, la penalizzazione delle aziende che delocalizzano e altro ancora. Ma il piatto forte resta il contratto a tempo determinato, utilizzato tantissimo dalle aziende nel corso degli ultimi anni, anche a fronte di incentivi a favore del contratto a tempo indeterminato. Di Maio non lo vuole eliminare, ma ridimensionarlo drasticamente e con le misure che ha proposto evidentemente è convinto di essere sulla strada giusta.

Prima di vedere se è proprio così, vale la pena che ci si chieda perché il contratto a tempo determinato è stato finora così coriaceo ai tentativi di riportarlo nei binari della marginalità. A mio avviso, le ragioni sono tante, connesse alle caratteristiche settoriali e alle dimensioni aziendali ma due elementi li considero prevalenti, escludendo che tutti, ma proprio tutti gli imprenditori abbiano la fobia della stabilità e la libidine della precarietà. 

Il primo è che per questa via si può aggirare il job act che ha alleggerito la motivazione del licenziamento individuale ma non la sua onerosità e l’alea del ricorso alla magistratura. Con il contratto a termine, la procedura è lineare, non è sottoponibile a interpretazioni. Con buona pace di quelli che hanno visto nel superamento dell’articolo 18 un vulnus insopportabile, molti imprenditori in realtà non l’hanno considerato non dico un regalo ma neanche un favorino.

Il secondo è che, per molte attività, la ripresa produttiva in atto non ha la robustezza e la prospettiva adeguata per fare,  con ragionevole sicurezza, programmazioni di medio lungo periodo. La controprova sta nella modestia del riavvio degli investimenti tecnologici ed organizzativi, pur in presenza degli incentivi di industria 4.0. C’è prudenza in giro, che non vuol dire scetticismo diffuso. Anzi, pur nel clima politico interno ed internazionale così pieno di contraddizioni, le aspettative a breve sono positive. Appunto, a breve. E questo scoraggia la crescita della stabilità occupazionale.

Ma queste sono argomentazioni che il Ministro sicuramente conosce. Per cui le misure adottate le considererà certamente capaci di perseguire l’obiettivo di invertire le tendenze in atto. Ma ci sono almeno tre motivi per dubitare, almeno sulla base di quanto finora è stato reso noto. Come le cronache hanno documentato, l’entusiasmo e la condivisione nella maggioranza non hanno accompagnato il decreto nel passaggio da Palazzo Chigi a Montecitorio. Ma conviene restare a quanto è stato proposto, senza fare previsioni e scommesse.

Il primo motivo sull’efficacia del provvedimento riguarda il contratto a tempo indeterminato. In aggiunta a quanto già detto circa la prudenza nel suo utilizzo, va sottolineato che fin quando sarà sgravato, per i nuovi assunti, di una quota del costo del lavoro soltanto per un breve periodo (tre anni), non sarà considerato dalle aziende tanto appetibile da scartare l’impiego del contratto a termine. Soltanto se lo sgravio fosse reso strutturale, probabilmente il contratto a tempo indeterminato sarebbe apprezzato rispetto ad altre forme flessibili. Ma questa è mossa onerosa e Di Maio non è in condizioni di mettersi contro Tria.

Il secondo motivo attiene alla qualità del “nuovo” contratto a tempo determinato. Nonostante la voce grossa della Confindustria o la grintosità di Berlusconi e della Meloni, le causali previste   per ricorrere alla reiterazione del secondo rinnovo e oltre, sono “interpretabili”, non sottoposte a verifica sindacale, forse foriere di una vigorosa ripresa della vertenzialità giudiziaria. Alea che le aziende affronterebbero senza un minimo brivido.

 Altrettanto per quanto riguarda l’aumento dello 0.50% del costo del lavoro per ogni anno oltre il primo contratto a tempo determinato. In concreto, all’aumento introdotto dal Governo Prodi e da quello Monti complessivamente del 4%, per un contratto a termine  di massimo 4 anni (attualmente è di 5 anni), si verrebbe a pagare il 5,5% in più che un contratto a tempo indeterminato. Differenza minima rispetto alla situazione attuale e quindi, prevedibilmente, niente concorrere a pensare che ci possa essere uno sgonfiamento del fenomeno.

Non metto in discussione che Di Maio abbia messo sinceramente l’elmetto in testa e sia partito per la guerra ma temo che non farà né vittime, né prigionieri. D’altra parte, il suo obiettivo vero non è quello di svuotare il contratto ma “di debellare una volta per tutte il fenomeno del tempo determinato all’infinito” (sempre nell’intervista all’Avvenire). Ma così, temo che rimarrà deluso. Le convenienze aziendali non si modificheranno sensibilmente, anche perché la congiuntura a breve non si profila tranquilla. L’inerzia imprenditoria farà premio sulla volontà (o sull’ingenuità) del Ministro.

Per far coincidere ciò che si proclama, con ciò che si propone e poi con ciò che si attuerà non c’è altra strada che far costare significativamente di più il contratto a tempo determinato. Anche senza causali, che servono soltanto per far guadagnare di più gli avvocati, ma con qualche ragione in più. Le aziende ricorreranno a questo tipo di contratto per “n” ragioni, ma con la discriminante della convenienza. Il legislatore non entri nel merito delle motivazioni, non le giudichi, non le distingua tra buone e cattive. Ma legittimamente può chiedere che il lavoratore che si dichiara disponibile, abbia una tutela maggiore, nion fosse altro che per il rischio che corre di interruzione della sua prestazione.

Da ciò, la maggiorazione, che deve essere discriminante, deve crescere significativamente e non simbolicamente. Almeno del 15% in più del costo del lavoro del corrispondente contratto a tempo indeterminato. Rispetto a questo divario, l’azienda può valutare i pro e contro del ricorso all’uno o all’altro contratto; ciascun lavoratore è messo nelle condizioni di non sentirsi di serie B, producendo precariamente; lo Stato “investe” veramente nello svuotamento del fenomeno del precariato ed in ogni caso tutela meglio chi vi rimane.

Le soluzioni blande, se non finte, possono illudere momentaneamente l’opinione pubblica, ma in breve tempo si dimostreranno per quelle che sono. Di Maio ci ripensi; prenda il coraggio a due mani e consegni al Parlamento una norma non pasticciata, ma comprensibile a tutti, anche se non tutti la troveranno di loro gradimento. Soltanto così potrà scrivere una pagina significativa della storia del diritto del lavoro e soprattutto a favore della ricomposizione del mondo del lavoro.  

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