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Piu’ chiarezza, ma l’equilibrio spesa/pil dipende da ben altro

Si riaffaccia oggi il tema della separazione tra previdenza e assistenza, complici un dibattito “disinformato” sul bilancio dell’Inps, confronti internazionali che ci vedono ai primi posti nel rapporto spesa pensionistica/PIL, la richiesta/promessa di una riforma della legge Fornero.

Obiettivo di chi rilancia il tema della separazione è, come è sempre stato, dimostrare che la spesa strettamente previdenziale è sensibilmente più bassa di quanto appare e che, quindi, non vi sono problemi sul fronte previdenziale propriamente definito.

Il tema della separazione non è nuovo, si affaccia nel dibattito quando negli anni ottanta i bilanci dell’Inps vanno in deficit e trova una prima risposta con la legge 88 del 1989, che all’art. 37 definisce le voci del bilancio Inps per le quali il finanziamento avviene in tutto o in parte mediante trasferimenti dal bilancio dello Stato, tramite una nuova gestione denominata Gias (Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali). In realtà, come appare anche dal nome, la Gias non finanzia solo l’assistenza ma anche le gestioni previdenziali Inps con importi complessivi che nel 2015 ammontavano a circa 36 mld di euro che salgono a 45 mld considerando anche, dal 2012, i trasferimenti alle gestioni ex Inpdap.

Il tema della separazione è via via depotenziato con le riforme del 1995 e 1997 che vedono da un lato il passaggio a carico della Gias di prestazioni fino ad allora a carico delle gestioni previdenziali (pensioni di invalidità ante legge 222/1984, pensioni della gestione CDMC ante 1989 le voci maggiori) e dall’altro l’abbandono dell’obiettivo di pareggio di bilancio delle gestioni previdenziali in favore di quello della sostenibilità della spesa pensionistica in rapporto al PIL.

Obiettivo “prioritario” di tutte le riforme, dalla Dini alla Fornero, non è stato quello di assicurare un equilibrio tra entrate e uscite delle gestioni previdenziali ma quello di stabilizzare/ridurre nel medio lungo periodo il rapporto spesa/PIL.

Resta comunque il tema della separazione, a volte latente a volte esplicito. Il punto è che non sempre è semplice effettuare questa separazione. A fianco di una spesa certamente previdenziale e di una certamente assistenziale (pensioni e assegni sociali, pensioni di invalidità civile, ecc.), esiste una zona grigia nella quale questa distinzione è quantomeno difficile e non basta la distinzione con il collegamento o meno a corrispondenti versamenti contributivi per definirla. 

Parti delle pensioni erogate a fronte di contributi versati sono finanziate dallo Stato attraverso la Gias. In primo luogo per ammontare, circa 21 mld, la cosiddetta quota parte di ogni pensione, a prescindere dal suo ammontare, erogata dalle gestioni previdenziali. Vi sono poi a carico della Gias, oltre alle già ricordate pensioni di invalidità Ago ante 1984 e alle pensioni CDMC ante 1989, la quattordicesima mensilità erogata ai pensionati, i trasferimenti alle gestioni per la copertura dei disavanzi di gestione di alcuni Fondi Speciali INPS (spedizionieri doganali, addetti alle imposte di consumo, lavoratori portuali e lavoratori ex FF.SS), e altre voci. Dal 2012 anche i trasferimenti ai fondi ex Inpdap per copertura dei loro bilanci, circa 9 mld, transitano dalla Gias. 

Questa spesa è da considerare previdenziale o assistenziale? E’ certamente una spesa non coperta dai contributi ma finanziata direttamente dallo Stato e dalla fiscalità generale. Come lo sono i contributi figurativi e gli sgravi contributivi posti a carico dello Stato e finanziati sempre tramite la Gias (oltre 9 mld).

A prescindere dalla attribuzione a previdenza o assistenza di queste voci, peraltro non tutte uguali tra di loro, non ha senso, a mio avviso, non considerarle nella spesa previdenziale. E’ una parte delle pensioni erogate agli ex lavoratori coperta e finanziata dallo Stato. Se non ci fosse le pensioni sarebbero più basse e/o le gestioni pensionistiche sarebbero in deficit o in maggior deficit.

C’è una voce, spesso ricordata dai fautori della separazione tra previdenza e assistenza, l’integrazione al minimo che è a carico delle gestioni. Secondo la Corte Costituzionale (sentenza n. 240 del 1994) non è assistenza ma “istituto previdenziale fondato sul principio di solidarietà”. Durante le trattative del 1995 che portarono alla legge 335 il sindacato pose il problema dell’integrazione al minimo e di un suo passaggio al finanziamento tramite Gias. La Rgs non era contraria ma proponeva lo scambio tra integrazione al minimo e quota parte delle pensioni a carico Gias. Entrambe le voci si aggiravano allora attorno ai 30.000 miliardi di lire. Il sindacato rifiutò perchè nello scambio, praticamente in equilibrio ai fini del bilancio complessivo dell’Inps, a rimetterci erano le gestioni dei lavoratori dipendenti che ricevevano di più dalla quota parte rispetto a quanto spendevano per l’integrazione al minimo. I vantaggi sarebbero andati solo alle gestioni degli autonomi. Oggi lo scambio è improponibile dato che a fronte dei 20/21 mld di euro che la Gias versa alle gestioni pensionistiche per la quota parte vi è una spesa per l’integrazione al minimo inferiore ai 10 mld di euro.

Vi è certamente un problema di trasparenza nel bilancio Inps che mette insieme i bilanci delle gestioni previdenziali e quello della Gias, unificando in un unico bilancio prestazioni previdenziali e prestazioni assistenziali, offrendo così a “disattenti” lettori e commentatori l’opportunità di attribuire alla sola previdenza i disavanzi dell’Istituto coperti dai finanziamenti dello Stato. Sarebbe utile riaffermare quanto previsto dall’articolo 1, comma 2, della legge 243/2004, mai applicato, per affiancare al bilancio generale dell’Inps un conto economico e uno stato patrimoniale al netto della Gias.

Si può ipotizzare anche uno smembramento dell’Inps attribuendo a un nuovo ente l’erogazione delle prestazioni assistenziali. In ogni caso resterebbe il problema di distinguere nella Gias, dentro o fuori dell’Inps, le prestazioni puramente assistenziali da quelle a sostegno delle gestioni previdenziali.

Nel secondo accordo sulle pensioni stipulato dai sindacati confederali con il governo Gentiloni nello scorso novembre si era concordato di istituire una commissione tecnica di studio per approfondire la comparazione a livello internazionale della spesa previdenziale. Mi sembra questa una via più utile sia per correggere alcuni elementi di criticità nei confronti internazionali sia, eventualmente, per ridefinire elementi di spesa assistenziali compresi nella spesa previdenziale. 

Come spesso accade, c’è un problema nei confronti internazionali. Chiunque li abbia affrontati sa che questi confronti sollevano spesso problemi di definizione negli aggregati dei diversi paesi. Succede anche nei confronti internazionali ed europei sulla spesa pensionistica nonostante lo sforzo di Eurostat per rendere gli aggregati nazionali compatibili tra di loro. La Ragioneria Generale dello Stato nella sua pubblicazione annuale sulle Previsioni della spesa pensionistica e sanitaria riporta i contenuti delle diverse definizioni di spesa pensionistica prodotte da una pluralità di istituzioni italiane ed europee. Ciascuna di esse risponde a specifiche finalità con elementi di differenziazione a volte rilevanti.

Se prendiamo ad esempio la voce “Old Age e Survivors” di Eurostat, spesso usata come termine di confronto, si è soliti contestare due elementi: il fatto che nell’aggregato italiano sia compreso il trattamento di fine rapporto dei lavoratori pubblici e privati (Cottarelli e l’Osservatorio della Cattolica erroneamente considerano solo il TFR dei pubblici) e che la spesa pensionistica sia calcolata al lordo del prelievo fiscale. L’inserimento del Tfr nella spesa pensionistica è una voce che si aggirava intorno a 1,5 punti di Pil ma che negli ultimi anni si è più che dimezzata. Dal 2014, infatti, l’Istat non attribuisce più alla previdenza l’intero ammontare del Tfr ma solo la parte erogata in occasione del pensionamento di vecchiaia (compresa l’anzianità), attribuendo la restante parte alla funzione disoccupazione. L’Istat ha corretto a ritroso la spesa pensionistica fino al 2007 e Eurostat ha preso atto della modifica. Di conseguenza la spesa in rapporto al Pil è ora più bassa rispetto alla vecchia serie, a seconda degli anni, di 0,6/0,7 punti. Resta comunque contestabile l’inserimento di questa voce, sia pure dimezzata, ma non è chiaro se anche altri paesi abbiano o meno voci simili nel loro aggregato considerato da Eurostat.

La seconda contestazione concerne il fatto che considerare la spesa pensionistica al lordo del fisco colpisce l’Italia nei confronti internazionali perché il nostro fisco agisce in modo sensibilmente più pesante sulle pensioni. Nel valutare qualunque intervento sulle pensioni la Rgs considera sempre la spesa al netto degli effetti fiscali. A fronte, infatti, di un aumento o di una riduzione di spesa vi sono effetti fiscali che ne modificano l’impatto sui conti pubblici. Se si applicasse lo stesso criterio anche alla spesa pensionistica nel suo complesso è chiaro che quella effettiva che pesa sul bilancio dello stato è quella netta. L’Inps eroga pensioni nette, la differenza con le pensioni lorde è versata direttamente allo Stato dall’Istituto. Nel bilancio previdenziale del 2016 le entrate fiscali nazionali e locali sulle pensioni ammontavano a circa 50 mld di euro (3% del Pil), la spesa pensionistica andrebbe considerata al netto di questa voce, che in alcune statistiche internazionali arriva anche al 4%. Il punto è che negli altri paesi la pressione fiscale sulle pensioni è molto più bassa, spesso inferiore a un punto di PIL. 

Anche in questo caso, tuttavia, il confronto non è semplice e richiede una ricognizione più ampia nei diversi sistemi fiscali. Nel nostro paese le pensioni sono tassate come un normale reddito ma i contributi pensionistici versati durante la vita contributiva sono esenti da imposta. In altri paesi in cui le pensioni sono meno tassate, lo sono invece i contributi pensionistici. Come fare il confronto in questi casi?

Finora il nuovo governo non si è pronunciato sull’accordo dello scorso novembre. L’idea della commissione di studio credo sia tutt’ora valida.

Sullo sfondo di questa commissione resta l’interrogativo sulla sostenibilità del nostro sistema pensionistico e sui problemi tutt’ora esistenti. Dalla mancanza di flessibilità in uscita, affrontata con l’Ape e l’Ape social, al differenziale di copertura pensionistica tra sistema retributivo e quello contributivo, alla copertura pensionistica futura di chi ha un percorso lavorativo precario.

L’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB) ha pubblicato in questi giorni uno studio comparativo sulle proiezioni di medio-lungo periodo della spesa pensionistica italiana effettuate rispettivamente dalla RGS, dal Working Group on Ageing Populations and Sustainability del Comitato di politica economica e dal Fondo monetario internazionale. 

Il confronto che ha come elemento comune le regole pensionistiche attualmente esistenti mostra come nei tre esercizi le diverse ipotesi considerate sulla demografia, sui flussi migratori, sul tasso di attività e di occupazione, sulla produttività portano a risultati sensibilmente diversi. Non è ovviamente una sorpresa, ma la comparazione fatta dall’UPB conferma da un lato che dire quale sarà il rapporto spesa pensionistica/Pil tra 20/30/40 anni è un puro esercizio statistico che dipende dalle ipotesi sottostanti, dall’altro che, trattandosi spesso di variabili che hanno effetti nel medio-lungo periodo (tasso di fertilità ad esempio), se si vogliono impedire determinate previsioni occorre agire per tempo. Se “accettiamo” gli attuali tassi di attività e di occupazione, date le previsioni demografiche, per non avere una caduta del Pil nel medio-lungo periodo sarà necessario un alto numero di immigrati, a meno di non ipotizzare un boom di produttività. Certo un forte aumento del tasso di fertilità può attenuare la prevista diminuzione della popolazione, ma occorrono politiche a sostegno della famiglia e dei figli, che comunque non danno risultati nel mercato del lavoro prima di 15/20 anni. Occorrono politiche per il lavoro, specie per quello delle donne, occorrono investimenti in formazione e in tecnologia per aumentare la produttività.

Nulla è necessariamente scritto, ma per evitare le derive indicate da alcune ipotesi previsive è necessario agire subito.

Una riflessione su questo sarebbe forse utile per il futuro del Paese.  

 

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