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Una tipica guerra tra ceto medio e poveri, da evitare

Ogni volta che ci si avvicina alla scadenza della formazione della legge di stabilità, torna di attualità la discussione su previdenza ed assistenza. Sono due voci importanti dei conti pubblici, sia nella dimensione domestica che in quella europea. Per di più, voci e numeri che parlano direttamente alle tasche della gente in carne ed ossa. Voci e numeri che fanno discutere non solo in Parlamento ma anche al bar; forse più animatamente nel secondo che nel primo. Voci e numeri che evocano ragioni e torti dell’attuale distribuzione della ricchezza nel Paese, che solleticano vandee e arroccamenti, che alimentano subbugli incontenibili tra testa e pancia delle persone.

Ma alla fin fine, la questione si riduce sempre ad un fatto interno al ceto medio e tra questo e i poveri. Il primo ha lottato per buona parte del novecento per imporre una decente tutela della vecchiaia; ora, di riforma in riforma, intravvede che si assottigliano soprattutto i margini di sicurezza. Certo, il ceto medio non si può rappresentare come un aggregato omogeneo, in termini di status, di garanzie, di prospettive. Ma, ad eccezione di una piccola parte, si percepisce in scivolata verso le fasce povere della società, sia che si guardi al lavoro, sia che si parli di anzianità, sia che attenga al benessere materiale e ideale.

I poveri, a loro volta, non hanno avuto mai molta voce in capitolo. Siamo il Paese con il più misero sistema di protezione verso la povertà di tutta l’area dell’euro, Grecia esclusa. Non è un bel primato. E com’è noto, la quota della povertà sull’insieme della popolazione è crescente, vuoi per effetto della crisi, vuoi per l’assenza di politiche inclusive. L’ “Alleanza contro la povertà” documenta sistematicamente questa complessità, sgomita con determinazione per farsi ascoltare e negli ultimi tempi c’è anche riuscita. I Governi Renzi e Gentiloni hanno accolto alcune delle loro richieste, anche se siamo soltanto all’inizio di un percorso di recupero del tempo perduto. Non a caso, dalle associazioni che compongono l’Alleanza sono venute le grida più alte contro l’ipotesi di cancellazione del Reddito d’Inclusione sociale per cedere il passo al Reddito di cittadinanza. Il bisogno di non distruggere ciò che si è appena conquistato è legittimo e va sostenuto.

Ma il rischio che ceto medio e poveri continuino a fare “a braccio di ferro” sulla destinazione delle sempre poche risorse disponibili, resta in piedi. Il conflitto tra assistenza e previdenza lo denuncia. C’è una guerra dei numeri che non si ferma. Ma che è anche strumentale. Il fatto che l’INPS gestisca l’una e l’altra non attenua lo sferragliamento delle armi. E le amministra entrambe sia perché è organizzativamente meglio attrezzata che altre istituzioni, sia perché nel tempo si è accumulata una legislazione di sostegno pubblico a misure che sono a cavallo tra assistenza e previdenza. Per questo, è terreno di contesa tra chi sostiene che al netto dell’assistenza, la previdenza è in equilibrio e chi opta per una visione restrittiva dell’assistenza per chiedere di intervenire sulle pensioni. Conflitto niente affatto circoscrivibile ai “competenti”, ma attinente a milioni di persone.

Il tema è squisitamente politico. Sarebbe bene che la separazione tra previdenza ed assistenza prendesse una forma istituzionale precisa. Anche se vale la pena di non disperdere sinergie, sarebbe opportuno che l’INPS avesse una holding sotto la quale porre due entità giuridiche distinte, con propri organi di gestione (anche perché i soggetti interessati sono diversi) relative alla previdenza pubblica e privata e all’assistenza pubblica dello Stato. L’efficacia amministrativa ci guadagnerebbe, l’opinione pubblica non farebbe la confusione che si fa tuttora. Non si è fatto in passato, per la modestia della spesa per assistenza, rispetto a  quella previdenziale. Ma le cose stanno cambiando, premono esigenze di tutele universalistiche delle aree più disagiate della popolazione, il sistema pensionistico che conosciamo è prossimo ad una revisione radicale.

Non basta a non contrapporre ceto medio e poveri. L’uno e gli altri hanno in comune che niente è certo per il futuro. Che mettere in sicurezza un gruppo sociale, può sollevare malumori e rabbie in altri. Che il sistema politico ha dimostrato e continuerà a dimostrare al massimo una capacità mediatoria delle esigenze in campo, tendenzialmente al ribasso per tutti. Invertire queste tendenze non è facile. Ma neanche impossibile. Bisogna avere proposte di qualità e consenso. Le une senza l’altro non avrebbero vita lunga. Sarebbero comunque edulcorate da chi ha convenienza che non nasca una intesa forte tra queste componenti della società.

Quanto alle proposte, in circolazione ce ne sono alcune convincenti: quelle relative allo sviluppo sostenibile che qualifichi sempre di più un’economia circolare; quelle che non demonizzino la globalizzazione e la realizzazione di un’Europa più unita e socialmente solidale ma ne governi i processi attuativi, condizionando la finanza e le grandi majors internazionali; quelle che facciano della ripresa demografica, del lavoro e della formazione e cultura le basi per una società più egualitaria, combattendo la povertà educativa, le precarietà esasperate, il blocco dell’ascensore sociale, la marginalizzazione e la solitudine degli anziani.

Quanto al consenso, c’è bisogno che le forze che in questi anni hanno alimentato, tra mille difficoltà, il dibattito sulle idee, decidano che bisogna far fruttare quell’impegno. Devono lanciare un “programma sociale”, incentrato su alcune priorità non generiche e condivise, farne terreno di dibattito ampio e libero, proporlo all’attenzione dei decisori pubblici, conquistarlo con una vera mobilitazione. Utopia? Basterebbe che CGIL, CISL e UIL, l’Alleanza contro la povertà, l’Alleanza Italiana per lo sviluppo sostenibile (tanto per fare alcuni nomi importanti) decidessero di mettere a fattor comune le loro migliori idee e la loro più efficace capacità partecipativa per far svoltare questo Paese, sempre più avvitato su sé stesso.

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