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Un formidabile attacco alla dignità del lavoro stabile

Della legge di stabilità si possono vedere aspetti complessivi e specifici tutti discutibili, essendo stata pensata per una congiuntura che appare diversa da quella che si profila, confezionata in modo a dir poco rocambolesco e approvata appena in tempo per evitare l’esercizio provvisorio, prendendo però per il collo il Parlamento e il Capo dello Stato. Come esordio di chi prometteva di cambiare passo rispetto alla presunta protervia dell’élite politica precedente, non appare proprio brillante. I contributi di questo numero della newsletter documentano con maggiore competenza e sicura obiettività le osservazioni e critiche ad aspetti essenziali della manovra economica.

Da parte mia, vorrei dedicare particolare attenzione agli effetti sulla qualità e quantità del mercato del lavoro delle scelte compiute dall’Esecutivo e avallate dal Parlamento. Innanzitutto a quelli relativi agli aspetti congiunturali, di per sé rilevantissimi data la piega che sta prendendo l’economia europea e a ruota, quella italiana. Stavamo per colmare il gap disoccupazionale che si era creato tra il 2015 e il 2018, incidendo finanche sulla disoccupazione giovanile, ma la frenata produttiva nel settore industria accentuerà le prudenze imprenditoriali, con ripercussioni anche sugli altri settori e sui consumi. Si erano avute avvisaglie con l’entrata in vigore delle nuove misure sul lavoro a tempo determinato volute dal Governo, ma c’è da attendersi un calo di richieste da parte delle aziende e forse una ripresa significativa dell’utilizzo della CIG.

Nella manovra, è stata affievolita la funzione anticiclica della spesa pubblica per investimenti. Per rientrare in parametri compatibili con le regole europee, questa spesa è stata spostata verso gli anni venturi. Ma per l’accanimento con cui il Governo sta gestendo questa partita, è di dubbia probabilità che nel 2020 e nel 2021 si rispettino gli obiettivi definiti. Il caso TAV è illuminante di cosa significhi mettere tutte le più importanti opere pubbliche, già in cantiere, in revisione dei costi-benefici, come va dicendo il Ministro delle Infrastrutture. Ci sono grandi aziende che sono già andate a gambe per aria nel settore edile e migliaia di lavoratori rimasti senza lavoro.

A questi campanelli d’allarme, sempre contrastabili se il buon senso orientasse l’azione del Governo su tracce più realistiche di comportamento, si aggiungono gli elementi strutturali che la manovra prevede in riferimento alla struttura del mercato del lavoro. Faccio riferimento al combinato disposto tra pensionamento a quota 100, reddito di cittadinanza, flat tax per le partite IVA sotto i 60000 euro di fatturato. Tutte misure che, una volta introdotte, si farebbe una fatica mostruosa a modificarle, figurarsi ad abolirle. Dal punto di vista egoisticamente soggettivo, per chi può usufruire subito di una di queste misure e per chi vede vicino il traguardo, è comprensibile la convenienza. Il guaio è che bisogna avere anche una visione di sistema nel formulare certe proposte. 

E da questo punto di vista i conti non tornano. Non tanto quelli finanziari, che pure pesano e stanno ritardando la presentazione dei decreti applicativi. Ma soprattutto dal punto di vista della natura del lavoro futuro. E’ probabile che non tutti i potenziali aventi diritto ad andare in pensionamento anticipato usufruiscano di questa opportunità. C’è un costo a carico del lavoratore che, se non interverrà anche la convenienza dell’azienda a farsene carico, funzionerà come un disincentivo. Ma essendo una misura lineare e non selettiva come erano quelle che negli anni passati avevano privilegiato gli “esodati” e una serie di figure professionali “usuranti”, riguarderà anche figure professionali di media ed alta qualificazione, la cui sostituzione potrà essere problematica. E qualora non lo fosse, potrebbe capitare che le aziende opterebbero più per una collaborazione autonoma che per una assunzione. Ancora più facile la tentazione di sostituire un lavoratore stabile con uno instabile nelle aree a bassa qualificazione, soprattutto nell’arcipelago delle piccole aziende. L’alterazione della struttura del lavoro è evidente ed è sperabile che l’azione di contrasto a questa devianza da parte del sindacato nelle aziende si faccia sentire. Ma per intanto, il Governo ne ha spalancato le porte.

Quanto al reddito di cittadinanza, almeno nel breve periodo, se entra in funzione, sarà un sostegno economico alle famiglie con maggiori difficoltà a consumare. Servirà a sostenere la domanda di beni e servizi. Forse, servirà anche a cercare lavoro, ma in Italia le politiche attive del lavoro sono ancora al loro medioevo, con le dovute eccezioni presenti nei territori con tassi di disoccupazione da sempre frizionali. Ovviamente, i virtuosi utilizzatori del reddito di cittadinanza saranno in maggioranza, ma tra di essi e soprattutto tra chi usufruisce già ora di lavoro in nero, crescerà la tentazione alle prestazioni illegali. All’ombra del reddito di cittadinanza si potranno verificare piccole o grandi chiazze di lavoro irregolare, specie nel Mezzogiorno ma non solo. E il contrasto a questo andazzo sarà difficilissimo, sia per difficoltà oggettive, sia per condizionamenti ambientali.

Infine, l’introduzione della flat tax per le partite IVA ha una potenzialità devastante la struttura del lavoro. Con il job act si era tentato di porre un altolà alle false partite iva. Con la previsione di un’aliquota unica del 15% da pagare su fatturati entro i 60.000 euro annui, si offre un incentivo significativo al ricorso di questa forma di collaborazione con le aziende, sostitutiva di tutte le altre forme di assunzione come lavoratori dipendenti. Ovviamente, non tutte le aziende si affanneranno a convincere quanti sono in situazioni di lavoro flessibile o anche di lavoro stabile (ma non così essenziale per l’organizzazione della produzione) perché si affrettino a cambiare casacca. Ma bisogna essere devoti a san Padre Pio per non essere tentati di ridurre i costi aziendali del lavoro, utilizzando questa discutibile flessibilità e la fragilità contrattuale del singolo lavoratore, specie se l’allarme recessivo si trasformerà in realtà drammatica.

Nell’insieme, si profila una sorta di svuotamento progressivo dello zoccolo duro del lavoro stabile, del lavoro dignitoso, del lavoro protetto da diritti conquistati da anni di lotta. Se dovesse consolidarsi questa pluralità di cattiva flessibilità, il fortino del lavoro a tempo indeterminato e tutelato dalle leggi e i contratti, sarebbe sempre più assediato. Da un lato un’impennata dei pensionamenti, non sostituita “one to one” da altrettanti lavoratori a tempo indeterminato, dall’altro un possibile prosciugamento del lavoro a tempo determinato ma sostituito con una flessibilità più pesante attraverso la mistificazione delle prestazioni tramite le partite IVA e dall’altro ancora – specie in alcuni settori parcellizzati sotto il profilo dimensionale delle imprese – attraverso il lavoro illegale di quanti potranno, a proprio rischio, cumularlo con il reddito di cittadinanza. 

Si profila un vero terremoto del mercato del lavoro, all’insegna dell’assistenzialismo e del più scombinato liberalismo. Non ci sarà norma repressiva (il carcere per chi lavora in nero in regime di reddito di cittadinanza) o controlli massicci (che per farli con efficacia implicherebbe costi per lo Stato enormemente più consistenti di quelli in corso) che riusciranno ad arrestare la deriva. Con effetti anche sulle prospettive del sistema produttivo. La sua produttività e quindi la sua competitività sono variabili dipendente della consistenza degli investimenti tecnologici ed organizzativi, ma questi diventano effettivamente necessitati se il costo del lavoro cresce o resta almeno stabile. Se, invece, si creano i presupposti per una loro sostanziale riduzione nel tempo, scema la convenienza ad investire su miglioramento delle professionalità e sull’innalzamento della qualità degli impianti.

Nel breve periodo, potrebbe far fare bilanci soddisfacenti; nel medio e lungo periodo, una prospettiva come questa – non nuova in Italia, negli ultimi venti anni – ci porterebbe ad avvitare sempre di più il sistema produttivo verso il vicolo cieco del declino e ad appesantire la dualità del mercato del lavoro. Così, non si entra con il piede giusto nell’economia digitale e men che meno nell’economia dello sviluppo sostenibile.    

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