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Un modello di protagonismo plurale

Non è stata una vertenza facile, anzi alquanto anomala. Ha avuto, in partenza, un connotato tradizionale, quasi all’antica. Da una parte, una multinazionale di prestigio come la Electrolux che annuncia ridimensionamenti occupazionali e chiusure di stabilimenti, con toni perentori e apparentemente intrattabili. Dall’altra i sindacati, compattamente, che rispondono con la mobilitazione dai segni storici degli scioperi, dei blocchi, dei cortei, della solidarietà di tutto il mondo del lavoro, tanto che la festa del Primo Maggio si è svolta a Pordenone.

C’erano tutte le premesse per un braccio di ferro promettente morti e feriti. Nulla di tutto questo. La discussione, pur aspra, tra le parti sociali si è protratta per mesi, senza mai interrompersi. Ad un certo punto, hanno avuto un ruolo ed un peso le istituzioni pubbliche ed in particolare il Governo e le Regioni maggiormente interessate. E la vicenda si è trasformata in una costruzione a più mani di un disegno complesso i cui ingredienti hanno nomi impegnativi: politica industriale, cuneo fiscale, innovazione dei prodotti e dei processi produttivi con precisi investimenti connessi, miglioramento della produttività aziendale, tutela dei livelli occupazionali.

Il protagonismo, quindi, è stato plurale e in questo dossier i principali attori esprimono le loro opinioni e valutazioni. Anche sulla base dei loro rilievi, vale la pena sottolineare alcune questioni.

La prima è che c’è la conferma che il capitale è globale e il lavoro è locale. La multinazionale può usare l’arma della delocalizzazione, i 6200 lavoratori dell’Electrolux quella della loro compattezza. Non sono alla pari, ma questa volta è andata nel verso giusto. Si sono trovate le ragioni per non deindustrializzare una zona (lo stabilimento maggiormente sotto tiro era quello di Porcia, Pordenone) e un Paese che negli elettrodomestici conta ancora un notevole patrimonio tecnologico e progettuale. La principale di queste ragioni è che l’innalzamento della qualità dei prodotti, per aggredire mercati più sofisticati e più ampi, ha bisogno di una strategia robusta e a più livelli di responsabilità. E questa è stata messa in campo; con il concorso di tutti i protagonisti, il puzzle è stato ricomposto e ora, sia pure con un traguardo a tre anni, si delinea un futuro possibile. Sono soprattutto i 150 milioni di euro per investimenti, dettagliatamente definiti, il perno di questa chiarezza di prospettiva.

La seconda questione, riguarda le istituzioni. Prima intimidite dall’aggressività della multinazionale, poi più determinate (da incorniciare lo scontro tra la Presidente Serracchiani e il Ministro Zanonato), hanno svolto un ruolo attivo per rimuovere gli ostacoli aziendali. Che non è stato un ruolo di pura mediazione, ma di intervento attivo per assicurare una politica industriale utile per l’azienda, per il settore e per l’occupazione. Fisco, incentivi ed ammortizzatori sono stati miscelati con accortezza e resi tutti funzionali alla prospettiva di ridare senso al rilancio aziendale. C’è da chiedersi se – invece di registrare questa concretezza soltanto ora, a crisi inoltrata – ci fosse stata la lungimiranza di mettere in campo una “cassetta degli attrezzi” di questa fatta, all’inizio della crisi, quanto del sistema industriale italiano avrebbe potuto evitare chiusure e ridimensionamenti e quanta occupazione potrebbe essere stata meglio utilizzata, invece di essere lasciata in Cassa integrazione a zero ore.

E già, i lavoratori. E’ la terza questione. Non hanno soltanto lottato. Hanno anche accettato una serie di modifiche del modo di lavorare (meno pause, ferie diluite, permessi asciugati, con un risparmio di 1,80 euro/ora per addetto) e un ampliamento del contratto di solidarietà che non esclude una quota di esuberi. Hanno dimostrato di voler scommettere sulla partecipazione come elemento vitale della crescita della produttività aziendale. Ed infine, hanno marcato una tenace sensibilità alla gestione unitaria della crisi che ha dato certezza alle decisioni assunte. Certo, il sostegno dell’intervento pubblico ha reso meno traumatico il costo della salvaguardia dei siti produttivi e dell’occupazione e sono state accantonate questioni e proposizioni – pur apparse nel corso della vicenda – che avrebbero caricato sulla dinamica delle retribuzioni l’onere della quadratura del cerchio. Ma anche  sotto questo profilo, la discussione sulla ripartizione del tempo di lavoro per difendere e accrescere l’occupazione resta sostanzialmente aperto. E i contratti di solidarietà difensivi potranno trasformarsi in riorganizzazione degli orari e dei salari, in modo strutturale.

Nell’insieme, questa vertenza allontana di anni luce la vicenda Fiat. Ormai, tutto il sindacalismo confederale, al di là dei distinguo verbali,  è orientato verso un ruolo partecipativo. E’ un grande vantaggio, sia verso i lavoratori che verso l’opinione pubblica. A prevalere non sono più questioni astratte circa il potere di decidere, sia nell’azienda che per le tematiche di ordine generale. Dirimente diventa sempre la qualità delle proposte che si confrontano e che si possono finanche scontrare. Ma se la logica è quella compositiva, il confronto non può che portare a conclusioni positive. Un buon viatico, per il futuro più immediato delle relazioni industriali e di quelle tra le istituzioni e le parti sociali. 

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