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L’Italia fotografata dal Censis

Il 5 dicembre 2014 il Censis ha presentato il 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese. Scrivere queste note alcuni giorni dopo l’evento ci ha permesso anche la lettura dei capitoli iniziali e di quelli sulle tematiche più vicine all’attività di Nuovi Lavori, consentendoci l’estrapolazione di tutti i dati, per noi rilevanti, che in genere non vengono affrontati in una presentazione. Anche quest’anno, infatti, hanno prevalso in quella sede le immagini forti delle analisi, delle tendenze e dei processi in atto nella società italiana: “Il Paese delle sette giare”, “Una società satura dal capitale inagito”, “Rischio deflazione delle aspettative”, “L’attendismo cinico delle famiglie liquide” e così via. Andiamo con ordine, nella lettura della fotografia 2014 dell’Italia, tra gli innumerevoli percorsi e dati che il poderoso volume ci offre.

Partiamo dalle “Considerazioni generali” del Rapporto. 

Siamo una società liquida in un sistema liquido. Senza cultura e ordine sistemico, i singoli soggetti si sentono abbandonati in una obbligata solitudine: vale per l’imprenditore come per la famiglia.  E si fa strada un fatalismo cinico. Dice il Rapporto del Censis: ” La profonda crisi della cultura sistemica induce a una ulteriore propensione della nostra società a vivere in orizzontale. Interessi e comportamenti individuali e collettivi si aggregano in mondi non dialoganti. Non comunicando in verticale, restano mondi che vivono in se stessi e di se stessi. L’attuale realtà italiana si può definire come una «società delle sette giare», cioè contenitori caratterizzati da una ricca potenza interna, mondi in cui le dinamiche più significative avvengono all’interno del loro parallelo sobollire, ma senza processi esterni di scambio e di dialettica. Le sette giare sono: i poteri sovranazionali, la politica nazionale, le sedi istituzionali, le minoranze vitali, la gente del quotidiano, il sommerso, il mondo della comunicazione”.

Per il Rapporto le sette giare “vanno connesse tramite una crescita della politica come funzione di rispecchiamento e orientamento della società, come arte di guida e non coazione di comando, riprendendo la sua funzione di promotore dell’interesse collettivo, se si vuole evitare che la dinamica tutta interna alle sette giare porti a una perdita di energia collettiva, a una inerte accettazione dell’esistente, al consolidamento della deflazione che stiamo attraversando. Una deflazione economica, ma anche delle aspettative individuali e collettive, della mobilità verticale individuale e di gruppo, della rappresentanza degli interessi, della capacità di governo ordinario (malgrado la proliferazione decretizia di tipo verticistico)”.

Il capitolo «La società italiana al 2014» è intitolato: “Una società satura dal capitale inagito, rischio deflazione delle aspettative” e ha come sottotitoli: “Desideri sospesi per famiglie e imprese. Contante, soldi fermi sui conti correnti e ri-sommersione nel nero come strategie adattative di fronte all’incertezza. Investimenti ai minimi dal dopoguerra, ma crescono patrimonio e liquidità delle imprese che ce l’hanno fatta. È l’Italia del «bado solo a me stesso».

Dopo la paura della crisi, e convinti che il grosso della crisi sia alle spalle, tra gli italiani prevale l’incertezza. Quindi le famiglie incrementano i contanti e i depositi bancari. A giugno 2014 questa liquidità è cresciuta fino a 1.219 miliardi di euro. Si risparmia perché si ha paura di imprevisti, tipo la perdita del lavoro o una malattia, o perché c’è voglia di sentirsi le spalle coperte. Si vogliono tenere i soldi vicini per ogni evenienza. La gestione del contante è una risposta all’incertezza; ma il contante vuol dire anche informale, nero, sommerso, reddito non tassato. In Italia si continua a pensare che per riuscire nella vita servano le conoscenze giuste o il provenire da una famiglia benestante; solo il 7% pensa all’intelligenza come fattore per l’ascesa sociale ed è il valore più basso in tutta l’U. E..

Dal 2008 si è registrata una flessione degli investimenti di circa un quarto. Si sono ridotti gli investimenti in hardware, costruzioni, mezzi di trasporto, macchinari e attrezzature. Dal 2007 al 2013 la mancata spesa per investimenti  è stata superiore a 333 miliardi di euro. L’incidenza degli investimenti fissi lordi sul Pil si è ridotta al 17,8%: il minimo dal dopoguerra (16,4% nel 1947, 17,3% nel 1948, poi 19,1% nel 1949). Ma questa flessione delle spese produttive, dovuta alla recessione e alle aspettative negative, non ha voluto dire un analogo peggioramento dei conti delle imprese che hanno tenuto. Dal 2008 a oggi il margine operativo lordo delle imprese è rimasto elevato,  il patrimonio netto delle imprese è aumentato, come le risorse liquide disponibili, passate dai 238 miliardi di euro del 2008 ai 279 miliardi del 2013 (+17,3%). Il grande capitalismo familiare italiano appare declinante, mentre cresce il microcapitalismo di territorio. Nel primo semestre del 2014 le esportazioni degli oltre 100 distretti industriali  sono cresciute quasi 4 volte in più di quelle dell’export manifatturiero.

Si dissipa il capitale umano, che non riesce a diventare energia lavorativa; siamo cioè un paese dal capitale inagito che non utilizza i propri talenti. Ai 3 milioni di disoccupati vanno aggiunti 1,8 milioni di inattivi scoraggiati e 3 milioni di persone disponibili a lavorare, anche se non cercano attivamente un impiego. Sono quasi 8 milioni di persone: un enorme capitale umano non utilizzato. I giovani tra 15 e 34 anni sono il 50,9% dei disoccupati totali, e i NEET (15-29 anni) crescono da  1.832.000 nel 2007 a 2.415.000 nel 2013. Va poi aggiunto il capitale umano sottoutilizzato rappresentato dai 2.500.000 occupati part time involontari ( dato del 2013, raddoppiati rispetto al 2007) e dagli occupati in CIG (1,2 milioni di ore, equivalenti a 240.000 lavoratori sottoutilizzati.  Il capitale umano sottoinquadrato, detto anche fenomeno dell’overeducation (lavoratori con posizioni per le quali sarebbe sufficiente un titolo di studio inferiore a quello posseduto), riguarda più di 4 milioni, il 19,5% dei lavoratori occupati. Tra di essi anche i laureati in scienze economiche e statistiche e anche un ingegnere su tre.

Il capitale inagito riguarda anche il patrimonio culturale del paese che viene messo a valore per una parte molto esigua. Paesi con minore patrimonio del nostro (Regno Unito, Francia, Germania, ecc.)  hanno quasi tutti, mediamente il doppio degli occupati e del valore aggiunto e conoscono anche, a differenza nostra, un forte sviluppo del settore.

La estraneità dei soggetti alle dinamiche di sistema risalta nel rapporto con i media digitali personali. A fronte del 63,5% di italiani che utilizzano internet, gli utenti dei social network sono il 49% della popolazione e arrivano all’80% tra i più giovani di 14-29 anni. Delle 4,7 ore al giorno trascorse mediamente dagli italiani sul web, 2 ore sono dedicate ai social network. E il numero di chi accede a internet tramite telefono cellulare in un giorno medio (7,4 milioni di persone) è ormai più alto di quanti accedono solo da pc (5,3 milioni) o da entrambi (7,2 milioni). “La pratica diffusa del selfie è l’evidenza fenomenologica della concezione dei media come specchi introflessi in cui riflettersi narcisisticamente, piuttosto che strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con l’altro da sé”. “Non è contraddittorio quindi il dato che emerge da una rilevazione del Censis secondo cui la solitudine è oggi una componente strutturale della vita delle persone: il 47% degli italiani dichiara di rimanere solo durante il giorno per una media quotidiana di solitudine pari a 5 ore e 10 minuti. È come se ogni italiano vivesse in media 78 giorni di isolamento in un anno, senza la presenza fisica di alcuna altra persona”.

Di fronte a 86 decreti approvati dal Consiglio dei ministri dal 2011 ad oggi, il Censis parla della “trappola della promessa che non si traduce in processi reali (amministrativi, economici, sociali), il ricorso alla decretazione, l’aggiramento da parte della politica dei corpi intermedi e il parlare direttamente ai cittadini non hanno però portato al decollo dello sviluppo e dell’occupazione”.

Negli anni della crisi si sono ampliate le disuguaglianze sociali, il ceto medio si è indebolito, le opportunità di integrazione sono diminuite. Ed è grave lo slittamento verso il basso delle grandi città del Sud. 

Gli immigrati imprenditori continuano a mostrare segnali di vitalità, soprattutto nel commercio e nell’artigianato.  Nei sette anni della crisi, le imprese con titolare extracomunitario sono aumentate del 31,4%, mentre quelle gestite da italiani sono diminuite del 10%. 

Prima della crisi gli investimenti diretti esteri si erano attestati su un livello superiore ai 30 miliardi di euro all’anno. Nel 2013 sono stati pari a 12,4 miliardi. È diminuita la nostra capacità di attrarre capitali stranieri per quegli investimenti che potrebbero rilanciare la crescita e favorire l’occupazione. Pesa lo svantaggio competitivo rappresentato dalle lungaggini delle procedure autorizzative per ottenere permessi e concessioni, e da quelle della giustizia civile quando si tratta di far valere un contratto commerciale. 

Gli italiani si fidano poco dei poteri europei. Il nostro Paese pesa per il 12% in termini di popolazione sul totale dell’Unione a 28 Stati, ma nella mappa delle principali istituzioni europee gli italiani che oggi occupano posizioni di vertice sono 178 su 2.242 (l’8% del totale). Su 700 lobby attive in ambito finanziario a Bruxelles, più di 140 sono riconducibili al Regno Unito, mentre solo 30 organizzazioni sono italiane, a dimostrazione della nostra scarsa capacità di incidere nelle sedi strategiche di decisione.

L’interesse suscitato all’estero dall’Italia, sebbene non adeguatamente sfruttato, non conosce crisi. Siamo la quinta destinazione turistica al mondo, con 186,1 milioni di presenze turistiche straniere nel 2013 e 20,7 miliardi di euro spesi (+6,8% rispetto al 2012). L’export delle 4 A del made in Italy (alimentari, abbigliamento, arredo-casa e automazione) è aumentato del 30,1% tra il 2009 e il 2013. 

Il successo di cibo e vini italiani nel mondo è uno degli indicatori più significativi del fortissimo appeal del nostro stile di vita. L’Italian food, inteso come “rapporto con il territorio, autenticità, qualità, sostenibilità, è uno straordinario ambasciatore del nostro Paese nel mondo globalizzato”. Il made in Italy agroalimentare è una delle componenti più dinamiche dell’export: 27,4 miliardi di euro nel 2013, con un aumento del 26,9% rispetto al 2007. 

Nel Capitolo “Lavoro, professionalità, rappresentanze” del Rapporto si esamina il tema dell’occupazione e di come esso rivesta un dato di debolezza e di emergenza ormai permanente.

Una costante consolidata nei vari paesi europei è che più è alto il tasso di occupazione, più è alta la quota dei contratti part time e dei contratti a tempo determinato. Da noi, nel 2013, il tasso di occupazione ha toccato il 59,8%, con il part time a quota 17,9% e i contratti a termine al 13,2% del totale.

In questi anni di crisi molte aziende hanno avviato processi di ristrutturazione, cambiando l’organizzazione aziendale, assumendo nuove professionalità e riqualificando il personale. Si sono rivisti i processi di lavoro, gli orari, il sistema di valutazione e i meccanismi premiali, con l’obiettivo di rimettere il lavoro in movimento, ripartendo dal valore delle competenze.

Anche tra i giovani cresce l’intenzione di crearsi il lavoro, in particolare partendo dalle maggiori opportunità favorite dalle nuove tecnologie: il 22% ha avviato una start up o intende seriamente farlo nei prossimi anni.

L’ultima riforma delle pensioni ha prodotto dal 2011 ad oggi questo risultato: + 19,1% di occupati over 50 e – 11,5% di occupati di chi ha un’età inferiore ai 50 anni. Tra gli inattivi over 50 (17 milioni) ben 14 milioni si dichiarano indisponibili al lavoro Circa 700.000 over 50 (di cui più della metà donne) non cercano lavoro, ma sarebbero disponibili a lavorare a certe condizioni, per potere integrare il reddito o affrontare spese impreviste.

Mentre ieri le identità lavorative erano nette, con profili tipo operaio, impiegato, professionista, ecc., oggi sono sempre più ibride con identità e aree di lavoro che interessano ormai circa 3,4 milioni di occupati (15,1%) fatti di temporanei, intermittenti, collaboratori, finte partite Iva e pestatori d’opera occasionale. Tra gli occupati di 15-24 anni la quota di ibridi supera la maggioranza con il 50,7%. Aumentano anche i tempi di non lavoro, con entrate e uscite dall’attività lavorativa. Il lavoro diventa una somma di esperienze, spesso intermittenti che non danno più percorsi di identità professionale. Conseguentemente anche i soggetti di rappresentanza  vanno in crisi di identità, perché svuotati di ruolo e perché incapaci di portare a unico modello di riferimento realtà sociali sempre più complesse e poliedriche.

Nel Capitolo “I soggetti economici dello sviluppo” è il manifatturiero italiano ad essere messo sotto esame.  Tra il 2008 e la fine del 2014 sono chiuse più di 47.000 aziende manifatturiere (l’8% del totale). Questa tendenza non è finita: anche nel 2014 infatti la chiusure sono state 5.700 (-1,1%). Nonostante questa situazione l’export ha risultati molto positivi. In particolare i distretti produttivi hanno avuto incrementi importanti (+ 4,2% nel 1° semestre 2014) e nella prima parte del 2014 i valori dell’export distrettuale sono stati superiori a 42 miliardi di €, i più elevati di sempre.

Tra il 2009 e la prima metà del 2014 la nostra quota sul commercio mondiale è scesa dal 3,6% al 2,8%, ma stiamo risalendo sul versante export. Siamo l’undicesimo paese esportatore a livello mondiale e al quarto tra i paesi UE; a molti prodotti made in Italy viene associata la caratteristica di qualità e questa diventa la nuova strada per la competizione.

Il Censis esegue una radiografia territoriale delle imprese che evidenzia le strade che esse hanno intrapreso per uscire dalla crisi e per svilupparsi:

– investire in conoscenza e innovazione;

– creare reti manifatturiere più capillari e la diffusione di nuove competenze utili contro la crisi;

– attuare una commistione tra industria e servizi avanzati.

Il Rapporto individua nella “white economy” –  l’insieme di servizi, prodotti e professionalità dedicate alla salute e al benessere delle persone – una nuova opportunità per il sistema paese. Già oggi questo sistema (servizi di cura, diagnostica, farmaci, ricerca in campo medico e farmacologico, tecnologie biomedicali, assistenza a malati, disabili e anziani) che fattura 186 miliardi di € all’anno, con 2,7 milioni di lavoratori occupati, fa prevedere una forte crescita.

Nel 2013 le spese complessive degli italiani sono su livelli inferiori a quelli dei primi anni 2000. Anche per il 2014 i consumi hanno registrato una variazione negativa, sia nel primo che nel secondo trimestre (-3,6% e – 2,9%). Dal 2010 tutte le voci sono in negativo, tranne quelle per la telefonia e le comunicazioni.  Le famiglie cercano di ridurre gli sprechi, spendere meglio e risparmiare: infatti se per ipotesi esse disponessero di risorse più elevate, nel 77% dei casi le metterebbero da parte, vanificando in tal modo ogni effetto sulla propensione al consumo. 

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