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Un’Europa da ricostruire

Grazie agli sforzi di tante persone di buona volontà (non solo Mario Draghi, ma anche tanti altri del Governo nostro e degli altri Paesi dell’Eurozona), sta lentamente cambiando l’atteggiamento di Bruxelles nei confronti della crisi che – iniziata nel 2009 – è ancora tra noi. E’ una crisi non solo di debito, ma anche economica e sociale. E’ soprattutto una crisi di fiducia: tra cittadini; di cittadini nei confronti dei loro Governi; e (ancor peggio) è sfiducia reciproca tra Paesi che hanno già da molti anni una comune sovranità monetaria. Non sarà facile uscirne, anche perché una diagnosi condivisa della crisi stenta a emergere.

    Mi limito ad alcune osservazioni sulle cause e sulle conseguenze della crisi; per poi concentrarmi sui rimedi già decisi e in corso di realizzazione.

 

Una crisi imprevista, ma prevedibile

    Come Jacques Delors – un cattolico socialista che è stato Presidente della Commissione UE negli anni in cui l’Euro fu deciso – non si stanca di ripetere, la forza dell’Unione economica e monetaria dipende dal mercato che seleziona, ma anche dalla solidarietà che accomuna, e dalla cooperazione cha rafforza. E’ questa triplice dimensione che consente al progetto Euro di riuscire a produrre sia integrazione economica (ciascun Paese si specializza nelle sue virtù) sia integrazione politica. Senza accontentarsi di ciò che dall’altro lato dell’Atlantico chiamano “Stati Uniti”: il progetto della nostra Unione è molto più ambizioso, e tiene conto di un passato che per più di 2000 anni ha già visto noi europei capaci di lavorare assieme, e di imparare ciascuno dall’altrui meglio.

    Una crisi di fiducia di cui tanti cercano altrove un qualche “capro espiatorio”, che eviti di dover dire la verità: iniziata l’unione economica e monetaria, il 1° gennaio  1999, ci siamo dimenticati che quello era solo l’inizio di un progetto politico – senza precedenti nella storia dell’umanità – molto ambizioso, che richiedeva lungimiranza e dedizione al bene comune. Una lunga “luna di miele”, durata 10 anni, è terminata in un disastro. Non solo perché adesso siamo pieni di debiti (privati e/o pubblici) inutili – e quindi, per definizione, eccessivi – ma perché abbiamo: meno capacità di crescita; meno reddito; e meno occupazione di 10 anni fa. Si sono aggravati i passati divari e si dubita che si possa presto recuperare il benessere che già avevamo conseguito in passato.

 

Le novità del 2015

    Merita considerare una serie di fattori positivi, che certo non bastano a ridurre subito la sofferenza dei tanti che hanno perso lavoro e/o reddito, ma che possono già nei prossimi mesi ridare un po’ di speranza. Tre in particolare vanno sottolineati.

1) Il progetto della Commissione Juncker

    E’ un progetto di investimenti pubblici (cofinanziati con fondi privati) esclusi dai limiti del “Patto di stabilità”, in grado di rilanciare infrastrutture anche di interesse comune. L’idea e il metodo proposti sono buoni, le dimensioni sono finora modeste. Ma se il progetto decollasse presto, non sarebbe poi difficile aumentarne le dimensioni, e far evolvere lo strumento in un modo intelligente per gestire – a livello comune, anche politiche di stabilizzazione, di cui l’Unione è per ora priva. Non saranno subito gli eurobonds di cui si parla da anni, né avremo presto un ufficio di grado non solo di predicare austerità, ma anche di praticare (quando serve) il suo contrario.

A volte, un “nuovo inizio” può anche essere di dimensioni modeste, se poi la cosa si dimostra utile ed entra nelle consuetudini della “macchina di Bruxelles”.

2) La “monetizzazione” del debito

    Si preferisce copiare l’America e parlare di Quantitative Easing (QE) con riferimento ai 1000 e più miliardi di euro di titoli (privati e pubblici) che nel giro di un anno e mezzo la BCE (in proprio, e tramite le Banche centrali nazionali) ha deciso di immettere nel sistema monetario e finanziario europeo. Che fine faranno tutti questi soldi? Una parte si investirà nel resto del mondo e questa uscita di fondi farà scendere il cambio dell’Euro: un cambio più favorevole sosterrà le esportazioni (e la profittabilità) delle nostre imprese migliori, e quindi produzione e occupazione anche in Italia. Un’altra parte di quella nuova liquidità si investirà in titoli (privati e pubblici) italiani: arricchendo i loro possessori e tenendo bassi i tassi pagati sul nuovo debito. Una terza parte infine alimenterà nuovo credito alle nostre imprese, riducendo il passato razionamento e favorendo così nuovi investimenti. Anche qui con un effetto positivo su reddito e occupazione. 60 miliardi di euro di nuova liquidità creata ogni mese dalla BCE e poi lasciata nel sistema finanziario per qualche anno (fino a quando i titoli comprati non scadono e non vengono più rinnovati) fa la differenza rispetto alla situazione prevalsa negli ultimi anni, quando il bilancio della BCE si era man mano ridotto perché le banche rimborsavano la liquidità prima ottenuta da Francoforte, senza chiederne di nuova.

3) Le tante riforme del Governo Renzi

    Un primo anno di vita del Governo è terminato, e si incominciano a tracciare più o meno esaurienti bilanci dei risultati ottenuti. Alcune osservazioni sono abbastanza condivisibili. La quantità di riforme avviate, più o meno prossime all’arrivo sulla Gazzetta Ufficiale, è semplicemente enorme. Ogni aspetto significativo del chi-decide-come e del chi-fa-cosa è in corso di revisione. L’elenco è noto: si va dal ridimensionamento (politico) del Senato e delle Province, alla riforma del Titolo V della Costituzione, alla nuova legge elettorale volta a garantire – più che in passato – la governabilità. Ma si riformano, anche in modo radicale, le regole di funzionamento del mercato del lavoro, la giustizia, il fisco, la scuola, la pubblica amministrazione, le banche, e così via. Disegni di legge, o se appena possibile decreti legge oppure leggi delega con successivi decreti attuativi: ogni strumento disponibile è utilizzato per accelerare i tempi di approvazione dei provvedimenti elaborati e/o proposti dal Governo.

    L’anomalia – da più punti di vista – di questa situazione è evidente: anzitutto, il programma del Governo non è fondato sui programmi elettorali dei partiti che si sono presentati alle elezioni politiche del febbraio 2013. Ne risulta un Parlamento spesso forzato ad approvare leggi che non aveva affatto ritenuto prioritarie o in cui non sempre si riconosce. E’ peraltro anche vero l’argomento spesso usato dal Governo che è da tempo elevato il consenso, nell’opinione pubblica prima ancora che nella classe politica, che quelle riforme fossero in qualche modo indispensabili, se non altro perché se ne discute da molti (troppi!!) anni.

 

Manca ancora l’Europa

    Le riforme che “modernizzano” l’Italia, la rendono più europea?

Qui il giudizio è meno condiviso. Per alcuni aspetti, la conclusione è di certo positiva. Dal ridimensionamento del Senato (per il quale è stato citato, come modello di riferimento, il Bundesrat tedesco) alla riforma del mercato del lavoro (anche qui, si sono citate molte analogie con regole e istituti prevalenti in altri paesi dell’Europa). Per altre cose pure importanti (dalla scuola al disegno di legge sulla concorrenza) non sembra invece che la logica adottata sia stata quella di ispirarsi a standard comuni con il resto d’Europa, o di guardare alle altrui “migliori esperienze”.

In altre parole, la crisi dell’Euro che ci ha rivelato quanta “poca Europa” abbia fatto seguito all’ambiziosa condivisione della stessa moneta, rimane ancora un problema, anzitutto politico, irrisolto.

    Bisognerebbe riuscire a progredire da almeno due punti di vista: 

1) anzitutto, cercare di dire la verità. Cosa non facile e che spesso non ispira i nostri dibattiti, dove c’è ancora tanta ipocrisia. Mi limito ad un esempio eclatante. La Grecia, oggi in crisi grave, entra nell’Unione europea nel 1981 e vent’anni dopo (nel 2001) entra nell’euro. Non c’è traccia di alcun beneficio che l’economia greca abbia ricevuto dal partecipare all’integrazione europea (vedi Baldwin-Wyplosz, The economics of European Integration, 2009). Perché ha insistito – falsificando i bilanci pubblici – per entrare nell’unione monetaria, se già “non era mai entrata” nell’unione economica?  Una buona economia di mercato –  che quindi gode dei benefici della maggior integrazione prodotta dalla moneta comune – deve essere anzitutto caratterizzata dal rispetto del principio di legalità (law and order); da una ridotta evasione fiscale, da poca corruzione (come tale combattuta); da una amministrazione pubblica efficiente. Insomma, se non hai una buona economia di mercato, solo imbrogliando il prossimo potrai avere benefici dall’avere una moneta in comune con altri Paesi che invece le leggi le rispettano, le tasse le pagano e i corrotti li mettono in galera. E’ quanto più volte, negli anni scorsi, il Fondo Monetario Internazionale ha ricordato ad Atene: stupisce che oggi gli uomini (e le donne) del FMI non siano più graditi in Grecia? Se uno studia con cura le analisi sulla Grecia, scaricabili dal sito EU di Bruxelles, deve onestamente porsi la domanda: non sarebbe meglio per tutti (a cominciare dai greci) se Atene riconoscesse l’errore fatto, e uscisse dall’unione economica e monetaria?

2) il secondo aspetto riguarda la strategia con cui ogni Paese membro sta facendo le “sue” riforme. Poiché queste sarebbero le riforme necessarie per avere i benefici, e non solo i costi, dell’UEM, non sarebbe preferibile una strategia unitaria in base alla quale si converge verso il meglio in ciascun campo?

    Nello scorso mese di febbraio, Italia e Francia hanno ambedue approvato una legge (in realtà, quella francese è già legge; mentre la nostra è solo un disegno di legge) sulla concorrenza. Ma se guardate con cura i due testi, notate che non è affatto comune il punto di arrivo né simile il percorso previsto. Ciascuno fa un po’ di riforme auspicabilmente al fine di migliorare il benessere dei suoi cittadini. Però, l’impegno era che una volta fatto l’euro avremmo poi fatto anche l’Europa: quando incominciamo?

 (*) Docente di Economia Monetaria all’Università Cattolica di Milano

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