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Chi comanda chi nelle politiche d’accoglienza?

Il pasticcio che sta svolgendosi sotto i nostri occhi sulle politiche dell’immigrazione e l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati è da una parte ridicolo, dall’altro sommamente tragico, ma comunque emblematico di una grande confusione istituzionale su uno dei temi più caldi e più sensibili sul campo della politica nazionale ed europea. Credo che sia il caso di rileggerci la Costituzione, di imprimerci bene in mente i ruoli di ciascuno e di dire quindi meno scemenze. Anche questo rispetto istituzionale è “buona amministrazione”, anzi senza questo è difficile costruire alcunché.

Partiamo dai fondamentali:

  • Le politiche per l’immigrazione sono di competenza esclusiva dello Stato, su questo, oltre alla Costituzione, la cui rilettura è comunque raccomandabile, vi consiglio un bel saggio di Guido Corso presente sul sito della nostra Corte Costituzionale che spiega che, senza ombra di dubbio, il potere di disciplinare l’immigrazione è una manifestazione essenziale della sovranità dello Stato.
  • Le regioni, che non hanno quindi nessuna possibilità di normare la politica di accoglienza, non sono chiamate in causa se non come coordinamento degli EL. Se, come va blaterando qualcuno, usassero il rubinetto dei trasferimenti ai comuni per incentivare o disincentivare l’operatività delle amministrazioni nell’applicare le direttive del Governo, sarebbero colpevoli di un illecito amministrativo grave.
  • Gli enti locali non normano sull’immigrazione, ma predispongono, d’accordo con lo Stato centrale e con le regioni, le strutture e le iniziative di accoglienza come “registi” del territorio. Hanno quindi il compito difficile e impegnativo, dell’inclusione, della coesione e della trasformazione dell’accoglienza da potenziale occasione di crisi e di conflitto a sicura opportunità di sviluppo e di crescita delle comunità locali.
  • I Prefetti infine non fanno le politiche, ma applicano le leggi e le direttive del Governo tutto e del Ministro dell’Interno in particolare.

In questo appello alla paura e alla pancia del Paese da una parte e ad una solidarietà senza strumenti dall’altra, è necessario mantenere la testa lucida e funzionante. Qualche riflessione non richiesta:

  • Attenzione ai numeri: noi siamo poco abituati ai dati, ma è necessario fare uno sforzo per avere dati affidabili sulla consistenza del fenomeno, sulla dimensione territoriale dell’accoglienza sia sulla base del rapporto alla popolazione sia sulla base del rapporto con la ricchezza prodotta e la potenzialità di assorbimento della struttura produttiva. Fare previsioni basate sui dati e prendere decisioni su questi: è la famosa prassi del “data driven decision” che in Italia non è certo di moda. Ho letto tante cose sui siti del organi di Governo e delle Regioni e sulla stampa, ma un’analisi ragionata basata sui numeri non l’ho trovata.
  • I rifugiati e i richiedenti asilo che arrivano sulle nostre coste nello stato che vediamo ogni giorno, nella grande maggioranza dei casi non vogliono restare in Italia; una delle trovate della politica della paura è di far sì che se ne vadano il prima possibile. Siamo certi che sia la migliore strada per uno sviluppo non congiunturale, ma strutturale delle nostre economie territoriali? La storia, maestra di vita, ci dice che qualsiasi Paese che è in grado di integrare nuova forza lavoro e nuove culture con intelligenza, lungimiranza e tenacia ne ha tratto grandi benefici sia economici sia culturali. La cronaca di alcune nostre economie territoriali ci racconta lo stesso.
  • Attenzione alla qualità e alla correttezza nell’assistenza: così come qualche disgraziato rideva del terremoto pensando ai lauti guadagni che gliene sarebbero derivati, così per molti, tecnicamente delinquenti come per Mafia capitale o solo approfittatori come ne troviamo ad ogni uscio, l’accoglienza dell’immigrazione (così come i campi Rom per parlare di un altro tema che mi sta a cuore) è divenuta un business lucroso. Questa degenerazione non è figlia solo della corruzione e della mala amministrazione, ma anche del tentativo di “incistare”, escludere, nascondere il fenomeno creando enclave chiuse e separate dal tessuto sociale della comunità territoriale. Parliamo tanto di smart community e smart city, ma poi di questa intelligenza non ci fidiamo e operiamo spinti dalla voglia di non far vedere e di non fare entrare in contatto e in relazione gli immigrati con la popolazione residente. Costruiamo ( e paghiamo molto cari) così ghetti di esclusione che diventano mine ad orologeria che non possiamo evitare che ci scoppino in mano. L’accoglienza, la solidarietà, la condivisione sono elementi costitutivi del cosiddetto “italian way of life” , non metterli in campo proprio ora e proprio qui vuol dire impoverire le nostre città, i nostri territori, ma anche ciascuno di noi.

 (*) Presidente FORUM PA

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