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Ecologia integrale, non integralismo ecologico

Non mi meraviglierei se Laudato si’ fosse proposta come libro di testo per la preparazione di qualche esame universitario. Né che battesse ogni record di traduzione nelle lingue parlate nel mondo (con relativo collocamento nella “top ten” delle librerie). E neppure che ci fossero tentativi di farlo diventare un manifesto di parte. Mi meraviglierei se l’enciclica raccogliesse soltanto consensi, se – anche nella Chiesa – la si coprisse con una montagna di cemento armato, come si fa con gli impianti nucleari incidentati, se fosse considerata soltanto un’opinione piuttosto che un magistero.

Laudato si’ si colloca come “pietra d’angolo”  della visione planetaria della Chiesa, prendendo di petto le questioni che meritano priorità ed i soggetti che devono agire, nel presente, per renderela Terra,  “la casa comune” più vivibile, più giusta, più umana. Ma soprattutto per preservarla dalla possibile catastrofe. Che non è soltanto ecologica ma anche sociale. Degrado ambientale e vita dei più poveri sono sempre visti come un tutt’uno, senza gerarchizzazione ma certamente compenetrazione. Proprio per questo, l’accento posto sull’ecologia integrale la preserva da ogni rischio di integralismo ecologico.

Ma nello stesso tempo, la questione del “tutto si tiene”, al punto che l’ecologia è coniugata in ambientale, economica e sociale (138 e seguenti), colloca i due corni del problema – l’ambiente e l’indigenza, il rifiuto consumistico e lo scarto umano – ad un livello di superiorità mai finora posto con tanta determinazione. Il fatto che in gioco sia il Creato (parola che con Creazione e Creature ricorre il maggior numero di volte nel testo, conteggio riportato dal settimanale Vita luglio 2015) e quindi non solo la natura ma anche l’uomo, sollecita Papa Francesco a lanciare l’allarme, a scuotere le coscienze,  a proporre  un pressante impegno per esercitare la responsabilità individuale e collettiva. 

L’uomo è chiamato a “coltivare e custodire il Creato” (genesi 2,15). Se questo è il fine, non solo per i credenti, l’enciclica ci obbliga ad interrogarci su come evitare che succeda il contrario. Perché è incontrovertibile che sta succedendo l’indesiderato. E non a caso. La ricetta è lo sviluppo sostenibile? Ma si potrà mai agguantarlo senza porre dei limiti all’espansionismo tecnologico, alla concentrazione del possesso finanziario, alla crescita dei capitali impazienti? Non sarà, forse, una scorciatoia la velleità di una decrescita (felice o infelice, non importa) che – come il socialismo – se fatto in un solo Paese e non a scala planetaria, potrebbe produrre brutte copie di totalitarismi di triste memoria? 

Lo sviluppo sostenibile e integrale è la terza via più ragionevole, dopo il fallimento delle economie pianificate e l’asfissia progressiva dell’economia di mercato. Esso ha bisogno di una strutturata visione non convenzionale del benessere, di una forte ridistribuzione del lavoro e della ricchezza tra i popoli e all’interno di ciascuno di essi, di un capitalismo che non ricerchi il massimo guadagno nel più breve tempo possibile, come pretende il rampantismo finanziario che razzola nel mondo, in modo da favorire investimenti possenti proprio nell’area dei “beni comuni” ben individuati dall’enciclica (23 e seguenti), come i volani della di una rottura di continuità con le logiche dominanti e che portano al disastro. 

La politica è chiamata pressantemente a rendere conto della sua fragilità propositiva e della scarsa egemonia nei confronti della tecnologia e della finanza. L’enciclica non è diplomatica al riguardo. Ma non è tacciabile di antipolitica(196); anzi, le riconosce un grande ruolo di leadership (53) specie a livello internazionale. Purtroppo, viene da osservare che la politica esprime sempre di più un deficit di visione lunga, di cristallinità nella sua azione, di formazione di classe dirigente capace di governare il presente pensando al futuro. Così alimenta populismi e disaffezioni che a loro volta lasciano spazi enormi al consolidamento del paradigma tecno-economico.

Da ciò il giusto riconoscimento della necessità di “educare all’alleanza tra umanità e ambiente” (209 e seguenti). Non si può dare per scontato che ciò stia avvenendo diffusamente. Per questo,  i mondi della scienza, dell’educazione e della comunicazione sono direttamente coinvolti dalla sollecitazione papale. Nell’enciclica si tirano giù, verso la realtà, questi mondi ed è sperabile che essi rispondano all’appello e non che, dall’alto dei loro saperi e poteri, si rinchiudano nell’antropocentrismo moderno, come se fosse la loro rassicurante coperta di Linus (115 e seguenti).

Ma il destinatario principale di questa enciclica è il povero, come rappresentante cardine di un’umanità intera a rischio di catastrofe. Un povero che non deve subire, che deve agire (232), che deve conoscere (182), deve lottare per un lavoro dignitoso (128), che non va abbandonato, come uno scarto qualsiasi. E così, da essi risale alla responsabilità di ciascuno di noi. A ragione. Abbiamo tutti compartecipato a costruire le condizioni per accrescere le ricchezze di questo mondo, per produrre di più e meglio, per allargare le opportunità di benessere, grazie all’inventiva, alla scienza e alla laboriosità delle persone. Ma abbiamo sostanzialmente fallito, almeno finora, nel ridistribuire equamente tanto sviluppo. E il fallimento si protrarrà pericolosamente fintanto che individualmente non prendiamo coscienza che occorre correggere profondamente i nostri stili di vita, le nostre priorità esistenziali, la nostra percezione dell’altro, specie se più debole.

La gratitudine verso lo “schiaffo” di Papa Francesco sarebbe poca cosa se non fosse accompagnata dalla consapevolezza che ciascuno di noi può dare il proprio contributo per  avere “gioia e pace”. 

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