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Il fai da te dello scienziato italiano

Stiamo entrando in un nuovo mondo. L’intuizione di Einstein sull’esistenza delle onde gravitazionali ha avuto  una prova definitiva cento anni dopo. L’11 febbraio scorso, al National Press Club di Washington, è stata annunciata la scoperta che il laboratorio californiano Ligo (cooperazione tra 750 scienziati di 16 nazionalità) ha realizzato anche con la collaborazione di Virgo (associazione di 250 fisici dell’Istituto nazionale di fisica nucleare italiano e dell’omonimo francese). La scoperta, a detta di tutti gli esperti, spalanca scenari nuovi nell’esplorazione astrofisica e cosmologica, ma finanche, come scrive Molinari, “una strada pionieristica tra giurisprudenza e astronomia……per la gestione di risorse che costituiscono il vero obiettivo di investimenti globali, privati e pubblici, nella ricerca spaziale che negli ultimi 10 anni hanno superato il tetto dei 50 miliardi di dollari”(La Stampa 14/02/2016).

Eppure notizia e commenti hanno avuto spazio mediatico soltanto di quarantotto ore. Ma, anche in questo breve lasso di tempo, non è sfuggito all’opinione pubblica la complessità delle questioni che ruotano attorno alla figura dello scienziato. Specie in Italia. Qui, le risorse scarseggiano da anni, come documentano le statistiche nostrane ed europee. I tempi di attuazione sono indeterminati, tanto che – lo racconta il capo di Virgo, Giovanni Losurdo – “da noi i finanziamenti per potenziare Virgo sono arrivati due anni dopo quelli ottenuti da Ligo e quindi loro sono arrivati prima”(Corriere della sera, 12/02/2016). E se il pubblico ha il braccino corto, i privati sono proprio tirchi. Un’azienda che non spende un euro di suo per la ricerca può essere considerata competitiva nel medio e lungo periodo? Eppure, migliaia e migliaia di aziende medio grandi non prevedono la voce ricerca nei loro bilanci.

In un contesto del genere, fare il ricercatore è una sorta di percorso di guerra. Chi è dentro le strutture pubbliche deve osservare le regole dell’amministrazione statale. Non solo le procedure diventano corresponsabili del rapporto 1 a 1 tra chi fa ricerca e chi deve amministrare, ma l’organizzazione del lavoro dominante è quella del burocrate. I più solerti si danno da fare e dedicano una parte del proprio tempo a dare la caccia ai finanziamenti pubblici o privati che vengono lanciati nel mondo. Con esiti alterni. Si può ben capire che la stessa produttività del lavoro scientifico viene mortificata dal prevalere dei formalismi rispetto al core business e dall’impegno necessario per assicurarsi risorse fuori dall’istituzione.

Chi ne è fuori, generalmente concorre per i pochi bandi italiani e per quelli esteri. La caratteristica comune è che si tratta di borse di studio a tempo e quindi la precarietà diventa la norma. Ma soprattutto non funziona l’ascensore sociale. Non vanno e vincono all’estero i peggiori, ma quelli che spesso sono esclusi nei concorsi italiani, assegnati a chi non sempre è tra i migliori. Così capita che la contestatrice del ministro Giannini, Roberta D’Alessandro (vedi lettera riportata in questo numero) vince un “ERC” in Olanda per…. studiare i dialetti italiani. Eppure non aveva disertato i bandi italiani.

Andare a studiare e fare esperienze all’estero non deve far scandalo. Dimostra che, nonostante tutto, le basi culturali dell’insegnamento italiano,  prima ancora che quelle scientifiche, sono solide. Consente di rafforzare le conoscenze di quei giovani che si vogliono misurare su scala internazionale. Fa scandalo, invece, il grave rischio che corre l’Italia. Di non rivedere più chi va via. Di non poter usufruire dell’ingegno di chi ha successo all’estero. Di impoverirsi nelle discipline di frontiera, quelle che operano sul futuro.

Forse il Governo dovrebbe organizzare una riflessione ad alta voce e coinvolgenti tante voci per cercare di raddrizzare la rotta di un settore sempre più strategico per la modernità delle attività e del lavoro nel nostro Paese. Prima che sia troppo tardi. 

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